Lagi

Nel presentare Mario Lagi ai (pochi ma buoni) lettori di questo blog devo innanzitutto scoprire le mie carte. E, dunque, devo dire che conosco questo giovane scrittore del basso Lazio da circa dieci anni, che alcuni viaggi fatti insieme a Roma non potrò mai dimenticarli e che è grazie a lui che ho avuto l’onore di mettere piede nella bottega-salotto di Giorgio Musicò, che con le sue pipe ha fatto fumare Gian Maria Volonté e Giorgio Bassani. Insomma: intervistando Mario Lagi ho intervistato un amico. Ed infatti quella che segue, più che un’intervista, sarà forse il resoconto di un’amabile conversazione.

Ciò posto, posso dire senza troppi sensi di colpa che Mario Lagi è nato a Pontecorvo nel 1987, che ha trascorso i suoi anni giovanili a Roccasecca e che dall’estate del 2015 vive e lavora a Padova. E posso aggiungere che ha al suo attivo tre romanzi (Trenta giorni tra le nuvole, Quello che ci aspetta dopo non è il pericolo, Vivere una favola) pubblicati tra il 2007 e il 2009 con l’editore cassinate Mondostudio: tre prove letterarie giovanili e certo un po’ acerbe, ma promettenti al punto da farmi pensare che i nuovi progetti che sta mettendo in cantiere potranno soddisfare le sue ambizioni di scrittore. Ambizioni che coltiva dagli anni adolescenziali e che non ha alcuna intenzione di abbandonare.

Da quanto tempo scrivi? E come hai iniziato?

Ho iniziato a scrivere durante le scuole superiori. Avevo sedici anni e frequentavo l’Istituto Tecnico Industriale a Cassino. Mi piaceva Buffy l’ammazzavampiri, una serie televisiva che in quegli anni andava forte, e pensai che sarebbe stato bello se avessi messo in piedi anch’io una narrazione simile a quella. Così iniziai a scrivere raccontini incentrati su storie di vampiri.

Ero influenzato da autori come Clive Cussler e Stephen King: letture comuni a tanti ragazzi della nostra generazione. E la cosa mi piaceva, perché mi sembrava che la scrittura riuscisse ad esprimere una mia capacità peculiare. Poi magari non era così, magari non avevo il talento dello scrittore: ma penso che in fin dei conti ciascuno di noi riesce a diventare quel che è se guarda oltre rispetto alla sua condizione presente. Insomma: bisogna pensare di essere capaci di fare qualcosa per poi farla davvero. Così ho continuato a scrivere, e da allora non mi sono fermato più. E la cosa mi ha preso al punto che ho abbandonato l’idea di iscrivermi alla Facoltà di Ingegneria – che pure sarebbe stata lo sbocco naturale degli studi che facevo a scuola superiore – per frequentare Lettere.

Secondo te noi siamo sempre meno di quel che pensiamo di essere?

Sì: bisogna pensare che si può raggiungere un obiettivo per mettersi in condizione di raggiungerlo davvero. Bisogna partire da un’ipotesi positiva su se stessi, insomma.

E qual era il tuo obiettivo?

Allora volevo semplicemente realizzare qualcosa di simile a quel che mi piaceva. Scrivere un libro era, per me, un sogno. Non avevo particolari messaggi da comunicare: ero un po’ come un bambino che si limita a tirare fuori quel che ha dentro per il piacere di farlo. Poi ho iniziato ad elaborare anche dei messaggi, una visione delle cose che non ha nulla di sistematico ma nasce, semplicemente, dalla mia esperienza del mondo. E questo, ora, è il mio obiettivo: dire quel che vedo delle cose attraverso la scrittura.

Che esperienza hai vissuto alla Facoltà di Lettere?

Ho frequentato l’Università di Cassino, che in effetti è un ambiente piccolo e provinciale. Ma in un piccolo ambiente possono trovarsi anche grandi persone, e lì devo dire che ne ho trovate sia tra i professori che tra i coetanei. Non avrei maturato molta della mia attuale coscienza letteraria senza frequentare la Facoltà di Lettere dell’Università di Cassino, e per questo motivo mi sento del tutto soddisfatto della scelta che ho fatto. E non è importante che gli studi umanistici diano meno lavoro di altri tipi di studi: per me è stata un’occasione di crescita intellettuale e morale, e dunque non posso lamentarmi.

Negli anni universitari hai pubblicato tre romanzi. Che ricordo hai di quell’esperienza?

La ricordo come un’esperienza dominata dalla fretta, dall’ansia di pubblicare. Erano testi immaturi, che oggi non pubblicherei più: non avevo ancora la maturità necessaria per cimentarmi con cose simili. Oggi credo che prima di dare alle stampe un romanzo ci si debba lavorare su per almeno due-tre anni, soprattutto sul piano del linguaggio e dello stile: perché bisogna avere qualcosa da dire, ma anche le parole giuste per dirlo. Ma comunque l’esperienza di Trenta giorni tra le nuvole, Quello che ci aspetta dopo non è il pericolo e Vivere una favola mi è stata d’aiuto, perché mi ha fatto capire che la letteratura, oltre che un piacere, è un impegno da portare avanti con sistematicità e metodo.

Da quel che dici mi pare di capire che per te lo scrittore non può essere un professionista legato a soluzioni tecniche. Insomma: gli Erri De Luca o gli Alessandro Baricco, che pure hanno contratti da onorare e quindi anche libri da scrivere a scadenze regolari, non rientrano nella tua idea di letteratura…

Guarda, se mi nomini Erri De Luca penso ad uno scrittore che comunque ha realizzato cose assolutamente dignitose. Diverso è il discorso per Baricco, ma in fin dei conti qualcosa di buono l’ha fatto anche lui. Ma se prendi un Ken Follett o uno Wilbur Smith vedi solo la sapiente maniera di gente di mestiere, e niente di più. Sono inseriti nel circuito della grande industria editoriale, e quindi scrivono in modo seriale, un po’ come se il loro non fosse un lavoro creativo per davvero. Insomma: quel che hanno da dire davvero non emerge dalle loro pagine, perché in fin dei conti l’importante è che producano una cifra “x” di romanzi per raggiungere una quota “x” di incassi.

E cosa è importante che lo scrittore dica, invece, secondo te?

Per me è fondamentale che la scrittura comunichi l’idea dell’identità come diversità, soprattutto in un mondo come il nostro, dominato dall’omologazione culturale. Tutti siamo quel che siamo perché nessuno di noi è uguale all’altro, e questo è il messaggio a cui tengo di più nella mia attività di scrittore: i miei personaggi devono avere una fisionomia che sia loro, che li renda in qualche modo unici. Poi, certo, siamo tutti uguali perché tutti abbiamo la stessa dignità, ci mancherebbe. Ma ciò che ci rende quel che siamo, ciò che ci identifica è ciò che ci fa diversi l’uno dall’altro.

Forse siamo tutti uguali perché abbiamo in comune solo la nostra reciproca diversità…

Può darsi. Ma comunque non considero questo un discorso concluso, sul quale posso dire parole ultimative. È, più che altro, una questione su cui amo riflettere, e che credo mi accompagnerà sempre.

Questo tema, però, era già presente nei romanzi che hai pubblicato.

Infatti il limite di quei romanzi sta nel linguaggio e nello stile. I problemi da cui nascevano restano presenti anche adesso, e saranno centrali anche nelle mie prossime pubblicazioni.

Quindi secondo te la letteratura è una forma di resistenza all’omologazione?

Sì: tutte le espressioni artistiche lo sono. Il nostro mondo corre forsennatamente, e spesso la direzione che intraprende non è quella della difesa delle diversità. L’arte e la letteratura possono essere un argine all’omologazione, uno spazio in cui affermare l’individualità degli uomini.

Però, in effetti, un po’ di omologazione è necessaria alla sussistenza del patto sociale. Insomma: gli uomini creano le società per vivere meglio, ma affinché la società esista è obbligatorio che ciascuno si omologhi, entro una certa misura, a dei punti di riferimento culturali e valoriali condivisi.

Secondo me, troppe volte, la società più che un patto si configura come un compromesso. Un patto è il necessario venirsi incontro di istanze diverse: ma è necessario affinché emerga la libera individualità di ciascuno. Oggi questa dimensione del patto sociale – lo stare insieme perché così emerge meglio ciò che ciascuno è individualmente – mi sembra messa alquanto a rischio.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

Un posto di rilievo spetta, sicuramente, ad Ernest Hemingway, Milan Kundera e Carlo Levi. Sul piano più strettamente stilistico direi, poi, che Vladimir Nabokov è un punto di riferimento inaggirabile. Ho letto Lolita in traduzione italiana e già così si avverte una grande potenza narrativa: non oso pensare a cosa quel romanzo possa essere in lingua originale. Poi ci sono sicuramente Tomasi di Lampedusa col Gattopardo, ed anche Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.

Cos’hai trovato in Carlo Levi?

La capacità di dire la verità. Forse è banale quel che dico, però Levi, esattamente come Hemingway, sapeva immergersi nella realtà delle cose, stare a contatto con gli uomini, e da lì trarre soluzioni narrative di grandissimo impatto. Lui trovò la sua vera identità tra i braccianti lucani pur essendo un benestante torinese.

Tra i suoi libri quali ritieni indispensabili?

Cristo si è fermato a Eboli non posso non menzionarlo. Ma più ancora di quello c’è L’orologio, che racconta il fallimento del governo Parri all’indomani della Liberazione. La capacità di rendere in forma narrativa la sconfitta degli ideali della Resistenza testimoniata dalla crisi di quell’esecutivo è, semplicemente, sconvolgente.

E cosa ti ha attratto, invece, in Hemingway?

In Hemingway ritrovo il mio lato malinconico. In lui aleggia costantemente un senso di morte, un sentimento di disperata malinconia che giustifica l’idea, espressa da Gertrude Stein, secondo cui quella del 1899 è stata «una generazione perduta». I ragazzi nati in quell’anno sono diventati adulti in un mondo sconvolto dal primo conflitto mondiale, ed hanno saputo trovare una loro identità solo nell’alcol. C’è il senso della privazione in Hemingway, che esprime i sentimenti di una generazione privata della possibilità  di costruire il proprio mondo senza dover pensare agli sconvolgimenti della guerra.

Ma nel tuo immaginario, oltre alla grande letteratura, c’è anche il pop.

Sì. Potrei parlarti del Corvo, ma un’attrazione fortissima, su di me, l’hanno esercitata i fumetti di Naruto. Anche lì emerge il tema di una diversità rifiutata ed emarginata dalla società. Poi capisco che molti potranno storcere il naso di fronte a quel che sto dicendo: ma a mio parere bisogna rimuovere gli steccati e gli snobismi e capire che anche dal pop può venir fuori della grande cultura.

Hai altri romanzi in cantiere?

Sì, ma preferisco non parlarne. Posso dirti, qui, che i temi su cui si concentreranno resteranno gli stessi: ma cercherò di esprimerli con un linguaggio nuovo, più aderente a quel che sono diventato o, forse, a quel che voglio diventare.