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Dopo aver mangiato minestra alle mense della Caritas i poveri fumano sigarette. A volte pensano all’ex moglie e ai figli che non vedono più da sei anni. Altre volte ricordano il giorno in cui hanno firmato sul foglio delle dimissioni in bianco, col responsabile del personale che gli diceva che o quello o niente. Poi, all’occorrenza, si chiedono se in nottata farà freddo, se ci sarà altro tabacco, se incontreranno quell’amico da cui hanno imparato a giocare a carte.

Di certo i poveri non pensano a Matteo Salvini o a Luigi Di Maio, come del resto ieri non hanno pensato Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Di alcuni di loro, anzi, è lecito immaginare che i poveri ignorino addirittura il nome. Del resto: perché dovrebbero conoscerlo? Per chi è povero essere nel 2018 non è diverso dall’essere nel 2009: figuriamoci se può avere importanza una “x” da mettere sulla scheda elettorale.

Chi ha da pensare alla sopravvivenza, insomma, non ha tempo da perdere coi salvatori della patria. Formarsi un’idea sul governo non è un suo problema. Comprensibilmente.

Pare difficile, dunque, sottoscrivere l’idea – oggi largamente maggioritaria – secondo cui il successo dei populisti in Italia e in Europa deriva dalle sofferenze sociali patite dagli ultimi. È molto più probabile, invece, che l’insofferenza diffusa nei confronti del “sistema di potere” sia il frutto delle difficoltà – talvolta reali, talvolta immaginarie – dei ceti borghesi e piccolo-borghesi. Cioè di quei ceti che, a causa della crisi, hanno smesso di cambiare automobile ogni tre anni e l’hanno sostituita con l’IPhone e il corso di pilates.

Che ciò sia vero è del resto confermato dalla maggior parte degli spauracchi e delle bandiere agitate dal governo pentaleghista, che dell’ondata populista in atto è uno dei più fulgidi esempi in tutto l’Occidente. Misure come la riforma delle pensioni, la flat tax e la pace fiscale non sono forse pensate per un interlocutore piccolo-borghese e borghese? E del resto la preoccupazione per la sicurezza nelle strade non è, forse, tipica dei ceti medi?

Questo, ovviamente, non vuol dire che si tratti necessariamente di misure volte a risolvere problemi fasulli. Però, ecco, dire che si tratta di tentativi di rispondere alle esigenze degli strati più deboli della nostra società significa, semplicemente, non sapere com’è fatta la povertà.

Post scriptum. A conti fatti, tra le misure proposte dal governo, la sola almeno potenzialmente in grado di fronteggiare il nero della miseria è il reddito di cittadinanza. Ma, di fatto, non è dato sapere né dove si troveranno i soldi per realizzarlo né come si eviterà di trasformarlo in una misura puramente assistenziale.

Tomaso Montanari, sul «Fatto quotidiano», ha argomentato la tesi secondo cui, se intesa come «uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta», l’identità italiana, semplicemente, non esiste. Ernesto Galli della Loggia, dalle colonne del «Corriere della Sera», si è incaricato di replicargli dicendo che le identità esistono eccome, sono un fatto storicamente determinato e «non vi è mai stato nessuno così idiota (…) che abbia sostenuto l’esistenza di un’identità italiana nel significato che alla parola identità attribuisce Montanari».

Ora, tralasciando la non sempre limpida prosa di Galli della Loggia – che pure a più riprese ha sottoscritto appelli per contrastare le deboli competenze linguistiche dei nostri giovani -, vien da osservare che, in effetti, Montanari non ha detto che le identità non esistono. Ha detto, piuttosto, che esse non esistono se intese come un amalgama omogeneo, calato da non si sa quale altura e impermeabile a qualsiasi contaminazione esterna – mentre, viceversa, esistono come punto d’incontro di storie diverse e potenziale punto di partenza di nuovi percorsi. Insomma: Montanari ha detto, come anche della Loggia, che le identità sono un fatto storicamente determinato. Il problema è che il suo interlocutore non l’ha capito.

Del resto l’immagine di un’identità intesa come purezza e coerenza di caratteri etnici viene oggi giocata con grande frequenza – e, purtroppo, grande successo – dalla politica e basterebbe fare una chiacchierata in un qualsiasi bar di provincia per avvedersene. Ed è per questo che il discorso di Montanari, a differenza di quel che ne dice della Loggia, ha un senso: perché mira a mettere in questione un assunto completamente sballato che i più, però, considerano un dato di fatto autoevidente.

Poi, certo, non basterà un editoriale a cambiare una mentalità diffusa. Soprattutto finché le principali fonti d’informazione del Paese saranno schierate con chi comanda.

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Della Loggia ha ragione, invece, quando evidenzia che le contaminazioni etniche e culturali da cui è nata la nostra identità non sono quasi mai avvenute pacificamente – come, del resto, non ha torto nel difendere le radici cristiane della nostra civiltà che, invece, Montanari vorrebbe negare.

Quel che tuttavia non è chiaro è dove egli intenda andare a parare dicendo queste cose. Perché è vero che le «invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti» da cui sono nate le passate contaminazioni, se messe a confronto con le attuali migrazioni (la cui legittimazione è il vero obiettivo di Montanari, secondo della Loggia), sono «un precedente per nulla rassicurante». Ma è vero anche che, una volta riconosciuto questo potenziale problema, occorrerebbe ragionare delle sue eventuali soluzioni, che da Galli della Loggia non vengono nominate neanche di sfuggita.

Bisogna chiudere i porti e bloccare le frontiere? Anche qui i precedenti storici non sono rassicuranti, perché nessuna fortificazione del limes ha mai impedito il transito degli invasori. Molto più sensato sarebbe pensare a delle serie politiche di accoglienza e integrazione, che abbia occhi per i problemi posti dai flussi migratori ma che sappia anche creare le basi per un fatalmente difficile incontro tra diversi.

Ma mi rendo conto che dicendo queste cose rischio di apparire “buonista”, e dunque ben venga lo scontro di civiltà.

 

La Lega ha elaborato una proposta di legge volta a rendere obbligatoria la presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici del nostro Paese. In linea di principio non credo sia un’iniziativa sbagliata, perché – come sostengono i firmatari della proposta leghista – per aprirsi alle diversità occorre aver rispetto di se stessi e della propria identità e perché, se il Crocifisso fosse lesivo della laicità dello Stato – come invece affermano i suoi detrattori -, bisognerebbe smettere di insegnare anche la Divina Commedia di Dante e I promessi sposi o gli Inni sacri di Alessandro Manzoni.

C’è anche da dire, però, che ciò a cui stiamo assistendo nell’Italia degli ultimi anni mette seriamente in forse l’idea, fatta propria dai firmatari della proposta, secondo cui il Crocifisso è uno dei “simboli della nostra identità, collante indiscusso di una comunità”. L’idea di travolgere i campi rom con le ruspe è, infatti, ben poco evangelica, e del resto il motto “prima gli italiani” non sembra troppo conciliabile con quell’amore fraterno e disinteressato che costituisce il cardine fondamentale dell’etica cristiana. Dopodiché, certo, è chiaro che “rispettare le minoranze non vuol dire rinunciare, delegittimare o cambiare i simboli e i valori che sono parte integrante della nostra storia, della cultura e delle tradizioni del nostro Paese”, come si legge nel testo delle “Disposizioni concernenti l’esposizione del Crocifisso nelle scuole e negli uffici delle pubbliche amministrazioni”. Ma è anche evidente che aver tutela delle nostre tradizioni senza avvertire la preoccupazione di renderne vivente e operante l’insegnamento – insomma: imporre la presenza del Crocifisso negli uffici pubblici e fare spallucce di fronte ai migranti che annegano nel Mediterraneo – è il miglior modo per condannarle a morte sentendosi con la coscienza a posto.

Benché oggi sembri d’obbligo dire il contrario, insomma, l’ipocrisia non è una prerogativa dei radical chic italici, e la proposta elaborata dalla Lega circa il Crocifisso sembra esserne la prova provata al punto che qualcuno, malignamente, potrebbe ricondurla al capitolo delle famose “manovre a costo zero”. Ovvero: una operazione di marketing politico finalizzata a nascondere la sostanziale inconcludenza dell’attuale maggioranza parlamentare e dell’esecutivo.

D’altro canto un simile spirito non sarebbe troppo distante dall’effettivo sentimento religioso degli italiani. Non è forse sufficiente fare un giro tra i vari social media per imbattersi in profili in cui, accanto a link in vario modo dedicati a figure-simbolo della tradizione cristiana e della devozione popolare, compaiono allarmate denunce della presunta invasione di migranti in corso?

Post scriptum. Ovviamente l’ironia e il sarcasmo con cui molti hanno accolto la proposta della Lega va esattamente incontro ai desiderata di Salvini. Il tipo d’italiano a cui si rivolge l’attuale ministro dell’interno è convinto di essere vittima di un’invasione e che “la sinistra” stia incentivando la distruzione della nostra identità: irriderlo significa convincerlo che ha ragione.

Post post scriptum. Nella nostra società coesistono culture diverse tra loro. Il miglior modo per farle convivere, però, non è rimuovere il Crocifisso da un’aula scolastica. Casomai è prendere provvedimenti quando un ragazzino straniero subisce angherie dai suoi compagni di classe.

Bettino Craxi è stato trattato per molto tempo alla stregua di un delinquente comune. Poi, col trascorrere degli anni, la memoria collettiva ha iniziato a riappacificarsi con lui, complice forse l’esperienza berlusconiana e il suo tentativo di riabilitazione del craxismo. Oggi questo processo si è forse compiuto, e si può quasi dire che gli italiani, mentre postano su Facebook frasi attribuite a Berlinguer e Pertini e reagiscono sdegnati alla corruzione dell’attuale classe dirigente, rimpiangono gli anni in cui Bettino Craxi era al governo come una sorta di età dell’oro in cui la sovranità nazionale e i diritti sociali venivano tutelati.

Ora, non è incomprensibile che si provi malinconia per Craxi e il craxismo. Basterebbe rileggere le dichiarazioni e i testi programmatici dell’allora segretario del Psi per entrare in un mondo in cui la politica aveva ancora una dimensione e uno spessore culturale e dove esprimere un pensiero più articolato di qualche irrealizzabile promessa elettorale era ancora possibile. È però proprio leggendo quelle dichiarazioni e quei testi programmatici – e contestualizzandoli adeguatamente – che l’odierna “malinconia craxiana” appare quanto mai paradossale.

Il leader socialista, infatti, non fu per nulla il fiero custode della sovranità nazionale e dei diritti dei lavoratori che oggi viene da più parti propagandato. Al contrario, misure come l’abolizione di quattro punti della scala mobile rispondono proprio a quella logica monetarista e neoliberista che spesso, oggi, viene additata – non senza obiettive ragioni – come la principale responsabile della crisi in cui siamo incappati. Né è possibile dimenticare che l’installazione degli Euromissili in Italia, che la Nato aveva deciso già nel 1979, fu resa possibile dall’avvento di Bettino Craxi a Palazzo Chigi nel 1983 e che il leader socialista fu fautore del primo, organico tentativo di riforma costituzionale della storia della nostra Repubblica.

Dopodiché, certo, è impossibile dimenticare i fatti di Sigonella e una certa propensione terzomondista solitamente assente nella politica estera italiana. Ma tutto questo – e molto altro ancora – va letto nel quadro di una politica estera che intendeva assegnare all’Italia un ruolo di potenza regionale nello scacchiere mediterraneo e non certo in un rifiuto dell’atlantismo.

Nel modo in cui rimpiangono Craxi, insomma, gli italiani mostrano di avere la memoria corta. Ma mostrano anche – e questo è, forse, l’aspetto più inquietante della faccenda – di aver ricostruito il passato alla luce di ciò di cui si sentono privati nel presente.

 

Quest’anno si è molto parlato dei simboli del Natale e del pericolo a cui sono esposti dal fluire della storia. Secondo molti, infatti, l’arrivo degli immigrati nei nostri Paesi sta modificando i nostri usi e costumi tradizionali, portandoci ad abbandonare o addirittura a rinnegare i valori consegnatici dalla tradizione.

Ora, benché si tratti di una convinzione sbagliata – quasi una versione vulgata della nietzschiana «morte di Dio» -, questa tesi contiene un germe di verità. Non si può negare, infatti, che la nostra società è in larga misura scristianizzata e che la forza evocativa del presepe, di Gesù Bambino, della stella cometa ecc. non sia più quella di un tempo. Quel che si può e si deve negare, però, è l’assunto secondo cui tutto questo sarebbe accaduto a causa degli ultimi della Terra giunti nella nostra cara Europa nella speranza di trovare una vita migliore.

A ben guardare, infatti, lo spirito della grotta di Betlemme, con la sua umile semplicità, è più distante dallo sfrenato (e occidentalissimo) consumismo che da diversi decenni pare aver stregato ognuno di noi che dalle paure che spingono un padre di famiglia senegalese ad abbandonare la sua terra martoriata. Potrà anzi essere utile leggere, in proposito, Troppo Natale!, un graziosissimo raccontino in cui Dino Buzzati immagina lo sgomento che proverebbero il bue e l’asinello del presepe se scendessero dal Paradiso in occasione del Natale e si trovassero di fronte l’ansioso andirivieni imposto dalla società dei consumi («C’è poca aria di stelle, qui», dice d’un tratto il bue). Insomma, se lo spirito del Natale è morto dobbiamo sapere che i suoi assassini siamo noi senza cercare facili colpe in persone che non hanno avuto la fortuna di vivere immerse nel nostro stesso benessere.

Ma c’è poi da chiedersi: davvero il Natale è solo una tradizione? Davvero la ricorrenza della nascita di Cristo va semplicemente ascritta agli usi e costumi di una più o meno ampia comunità di persone? Se si presta ascolto alla pretesa cristiana il semplice porre simili domande suona quasi come una bestemmia. La nascita di Cristo pretende di essere, infatti, una provocazione della ragione, la quale viene posta di fronte all’Incarnazione del Verbo ed è chiamata non a rinunciare alle sue consuetudini, ma a ripensare alla radice se stessa.

Si può ridurre tutto questo a un fatto di folklore locale? Ovviamente sì: ma solo a patto di non prenderlo sul serio. Chiunque lo prenda sul serio, credente o meno, non potrà non considerarlo, al contrario, un invito a riconsiderare il proprio modo di essere al mondo.

Franco Paliotta aveva l’abitudine di chiamare “capo” tutti coloro con cui aveva stabilito rapporti minimamente confidenziali. Anche il sottoscritto, a poche settimane di distanza dal suo arrivo nella Biblioteca Comunale di Cassino – ero un giovane tirocinante dell’Università –, si vide riconosciuto questo prestigioso titolo.

«Hai fatto carriera in fretta, eh?», amava ripetermi ironicamente Franco.

«Beh sì, non ci lamentiamo», gli rispondevo. E lui, ogni volta come se fosse la prima, ripeteva: «Tutti capi! Qui siamo tutti capi!».

Certo, era un modo di fare pittoresco. Tuttavia, se ci si limitasse a questa constatazione, si farebbe un torto a Franco Paliotta, il cui ingenuo candore nei confronti del mondo non aveva azzerato in lui una capacità d’osservazione a suo modo geniale o, perlomeno, in grado di far arrossire più di qualche sociologo.

Fu un vigilatore degli scuolabus, un giorno, in un momento di pausa dal lavoro, a spiegarmi infatti che quel particolare vezzo derivava dalla perplessità ingeneratagli dalla proliferazione di notabili nella società cassinate. Possibile mai – si chiedeva Franco – che ci sia una simile folla di maestri, professori, notai, avvocati, segretari, presidenti, dirigenti, assessori e “sopracciò” di varia natura? Possibile mai – cioè – che si viva in una società di eccellenze? Ecco: dire che «siamo tutti capi» era il suo modo di capovolgere ironicamente – ma con infinita bonarietà – questo grottesco panorama antropologico e il suo culto delle apparenze.

Ma Franco Paliotta non fu solo questo. Tutti dovrebbero ricordare, infatti, la sua grande abnegazione al lavoro e il suo senso del dovere, e se qualcuno lo negasse gli si potrebbe far notare che è stato grazie al suo impegno silenzioso che spesso la sala polivalente della Biblioteca Comunale di Cassino è rimasta aperta anche fino a mezzanotte per ospitare eventi di varia natura. E tutti dovrebbero ricordare, inoltre, la grande bontà d’animo e la profonda innocenza di sguardo di quell’uomo dagli occhi perennemente semichiusi.

In proposito mi piace tornare con la mente a un episodio accaduto lo scorso inverno, a margine di una interessante conferenza sulle truffe agli anziani. Ricordo infatti che a ridosso dell’ora di cena, a lavori terminati, il pubblico, composto perlopiù da signore impellicciate, iniziò, tra una chiacchiera e l’altra, a uscire dalla sala polivalente. Io mi avvicinai a Franco dicendogli: «Certo, capo, questi devono chiacchierare, ma dovrebbero pure pensare che c’è chi deve chiudere la sala e tornare a casa!».

«Ma no, capo», rispose lui. «Non è giusto mettergli fretta. Hanno fatto una cosa tanto bella stasera: se vogliono scambiare due chiacchiere è bene che lo facciano».

Non seppi che rispondergli. Quella sera pensai che tutti dovremmo essere un po’ Franco Paliotta.

Riccardo Mannelli fa un mestiere che lo obbliga a suscitare l’indignazione altrui. Un vignettista satirico, infatti, deve creare disegni che mettano alla berlina pezzi di realtà, siano essi un ministro o il ragazzotto che insegue i Pokemon col suo cellulare – e si sa che diventare motivo dell’ilarità altrui non piace a nessuno.

Non c’è dunque da sorprendersi se la sua recente vignetta su Maria Elena Boschi ha potuto suscitare polemiche su polemiche, irritando anche la diretta interessata. Eppure Riccardo Mannelli e l’intera squadra del «Fatto quotidiano» (il giornale su cui la vignetta in questione è stata pubblicata) se ne sorprendono moltissimo.

E certo, in molto di quel che dicono non hanno torto. È senz’altro vero, ad esempio, che evocare – come molti hanno fatto – il sessismo di fronte a una vignetta un po’ greve (e, diciamo pure, non così divertente) è eccessivo. Ma, in fin dei conti, come non può esistere un Vaglio Ufficiale del buon gusto – ha ragione Michele Serra in proposito –, così non ne può esistere uno per le polemiche intelligenti.

Molto più interessante sarebbe, invece, un Vaglio Ufficiale per le polemiche balneari. Perché questa relativa alla vignetta di Mannelli mi pare avere tutti i crismi per essere rubricata a quella voce.

La religione non è la vera causa delle guerre

Si dice spesso che le religioni sono fonte di violenza. Ed è, in effetti, una tesi che pecca di eccessivo ottimismo, perché se fosse vera basterebbe abolirle per garantire non dico la pace, ma perlomeno una significativa riduzione dei conflitti. Eppure l’Europa del Novecento – quella successiva alla “morte di Dio”, ormai laica e secolarizzata – è stata l’epicentro di due guerre mondiali.

Del resto anche guardando al passato questa tesi non trova troppe conferme. Prendiamo il cardinale Richelieu, tanto per dire: lui organizzò guerre contro l’Impero asburgico del cattolicissimo Ferdinando di Stiria ed in favore dei protestanti perché, se quest’ultimo avesse accumulato troppo potere, sarebbe stato un serio impedimento alla ricostituzione di un’egemonia francese sull’Europa. Eppure il caro Armand-Jean du Plessis, figlio del signore di Richelieu, era, per l’appunto, un cardinale: e cioè uno dei più importanti esponenti della gerarchia ecclesiastica.

La religione, insomma, non è la vera causa delle guerre. Potrà essere tutt’al più una loro concausa, o magari un pretesto: ma in ogni caso la faccenda è ben più complessa.

Ferdinando contro tutti – Le prime due fasi della Guerra dei Trent’anni

La pacificazione di Augusta (1555) aveva assicurato alla Germania un lungo periodo di pace. All’inizio del ‘600, però, l’arrivo sul trono imperiale di Mattia d’Asburgo e l’elezione di Ferdinando di Stiria a Re di Boemia fanno riemergere vecchie ruggini. Si formano la Lega cattolica e l’Unione evangelica, e la situazione minaccia di precipitare da un momento all’altro.

Ferdinando di Stiria promuove una politica di cattolicizzazione forzata e la nobiltà boema, in maggioranza protestante, si ribella. Il 23 maggio 1618, dalle finestre del castello di Hardčany, volano a terra Jaroslav Bořita z Martinic, Vilém Slavata e Philip Fabricius, ovvero i delegati dell’imperatore ed il loro segretario. È la famosa defenestrazione di Praga, al termine della quale Federico V del Palatinato viene nominato Re di Boemia dagli insorti e Ferdinando di Stiria – nel frattempo divenuto imperatore col nome di Ferdinando II – inizia una vera e propria guerra contro i nobili boemi.

Con l’aiuto di armi spagnole l’esercito imperiale riuscirà ad imporsi sui ribelli nella decisiva battaglia della Montagna Bianca (1620) ed in seguito nella battaglia di Stadtlohn (1623). Al termine di questa prima fase della Guerra dei Trent’anni – nota come fase boemo-palatina – Ferdinando inasprì la sua politica di cattolicizzazione e di repressione del protestantesimo.

La pace sarà tuttavia breve. Il protestante Cristiano IV di Danimarca non era infatti solo sovrano dei danesi, ma era anche duca di Holstein, un ducato interno al Sacro Romano Impero, e per questo motivo non vedeva di buon occhio né l’accresciuto potere di Ferdinando II né la sua politica antiprotestante. Così, nel 1625, la Danimarca, forte anche del supporto finanziario della Francia di Richelieu, dichiarò guerra a Ferdinando, iniziando la fase danese della Guerra dei Trent’anni.

Ancora una volta, però, l’esercito imperiale riuscirà ad avere la meglio. Questa seconda fase del conflitto sarà particolarmente contrassegnata dall’ascesa dell’astro politico-militare di Albrecht von Wallenstein, nobile boemo di fede protestante convertitosi al cattolicesimo per puro e semplice opportunismo. Sarà lui, insieme al conte di Tilly, a dare un contributo decisivo all’affermazione dell’esercito imperiale in questa seconda fase della guerra, acquisendo un potere tale da suscitare qualche perplessità in tutta l’aristocrazia tedesca ed anche in Ferdinando II.

Ad ogni modo l’Imperatore siglò, nel 1629, il Trattato di Lubecca, con cui di fatto sanciva la pacificazione con la Danimarca. In quello stesso anno, poi, Ferdinando II promulgò l’Editto di Restituzione, con cui imponeva ai principi protestanti di restituire i beni confiscati alla Chiesa cattolica a partire dal 1552.

Si trattava, ovviamente, della premessa a nuovi conflitti.

I crucchi e i francesi non ci stanno – Le ultime due fasi della Guerra dei Trent’anni

I principi tedeschi, ovviamente, non prendono per niente bene l’Editto di Restituzione, e così iniziano ad invocare, insieme alla Francia, l’intervento militare di Re Gustavo Adolfo di Svezia. Quest’ultimo accetta e scende in Europa con un forte esercito, dando inizio alla terza fase della guerra dei trent’anni, detta fase svedese.

Gustavo Adolfo ottiene una serie di successi sull’esercito imperiale, ma perde la vita in battaglia. Così Ferdinando II, dopo aver fatto uccidere il Wallenstein – che tramava contro di lui –, sconfisse l’esercito svedese e stipulò un accordo con i principi tedeschi. Ma a questo punto è la Francia di Richelieu ad intervenire in prima linea, avviando la fase franco-svedese della guerra.

È, questa, la fase più lunga e sanguinosa del conflitto. Alla fine l’erede di Ferdinando II, ovvero Ferdinando III, si arrenderà, e verrà firmata la pace di Westfalia (1648). Con essa l’Impero rimaneva in piedi come entità puramente formale, ed al suo interno si creava una miriade di micro-territori; mentre il potere dell’Imperatore veniva limitato ai domini asburgici.

Il Re c’è, ma non importa – La “politica dei primi ministri” e la situazione tedesca dopo Westfalia

La Germania pagherà a lungo lo scotto della guerra dei trent’anni: andrà incontro ad una crisi demografica e ad un declino socio-economico di lunga durata.

Il quadro europeo nel trentennio che comprende questa guerra vede affermarsi la “politica dei primi ministri” in Francia e in Spagna. In questi Paesi, infatti, più che la persona del sovrano (Luigi XIII in Francia, Filippo III in Spagna) a contare è il primo ministro, che decide la linea politica da seguire.

La politica spagnola è orientata dall’attività di primo ministro del duca-conte Olivares. Questi offre appoggio militare alla casa asburgica durante la guerra dei trent’anni, ma lo sforzo finanziario necessario a questo scopo lo sostiene mediante un pesantissimo inasprimento della pressione fiscale. Da ciò derivano varie rivolte: quella del Portogallo, della Catalogna e del Regno di Napoli (le ultime due rientreranno, mentre il Portogallo otterrà l’indipendenza con la pace di Westfalia).

L’omologo francese di Olivares è invece il cardinale Richelieu. Anche lui avvia un significativo inasprimento della pressione fiscale che è all’origine di varie rivolte, alcune popolari ed altre anche nobiliari (la famosa rivolta della Fronda). Richelieu, inoltre, avvia un processo di centralizzazione burocratica dello Stato volto a rafforzare il ruolo del Re che anticipa la politica di Luigi XIV.

 

«Tra-duecento-metri-svoltare-adestra». E così, nel rispetto di quel curioso patto che si stabilisce tra automobilista e navigatore satellitare, dopo duecento metri svoltai a destra.

Credo sia utile specificare la motivazione di questa mia scelta perché, in effetti, seguire le indicazioni fornitemi dal Tom Tom in quel momento era più un tertullianeo atto di fede – un «credo quia absurdum», insomma – che una decisione ponderata. La strada in cui svoltai, infatti, era di circa dieci centimetri più larga della Ford su cui viaggiavo, aveva una colata di cemento per asfalto ed era ripidamente in salita. Pensare che grazie ad essa sarei arrivato per tempo alla scuola media di Anagni, dove ero stato convocato per una supplenza, richiedeva un coraggio che forse altri non avrebbero avuto.

Ma comunque imboccai quella strada, e mentre contavo i litri di carburante che l’alternanza prima-seconda stava facendo volare via mi trovai di fronte, alto e solenne, un cancello in acciaio. Guardai l’orologio: avevo altri tre quarti d’ora per raggiungere la scuola. Poi, con gli stessi occhi che doveva avere Giobbe infuriato con Dio per le mille disgrazie piovutegli addosso malgrado la sua buona condotta, guardai al Tom Tom, il quale però rimase imperturbabile.

«Proseguire-peraltri-trecento-metri-e-poi-svoltare-adestra» fu tutto quello che mi seppe dire. Al che pensai di affidarmi alla Ford e sfruttare i dieci centimetri di spazio che la strada metteva a mia disposizione per fare manovra e tornare indietro: ma non avevo cambiato le gomme, e quelle che c’erano slittavano. Non era colpa loro: se non cambi pneumatici quelli che hai si fanno lisci.

Allora, come tutti coloro che si sentono vaganti per mare senza punto di riferimento alcuno, pensai di scendere dalla macchina, suonare al campanello di qualche casa nelle vicinanze e chiedere aiuto (inutile cercare di capire in cosa dovesse consistere quest’aiuto: in quel momento non c’era da badare ai dettagli). Ma, mentre con la mano sinistra avevo acchiappato la maniglia della portiera, mi accadde di individuare, nello specchietto retrovisore, una sagoma che, sì, le proporzioni di un essere umano adulto le aveva, ma in aggiunta si ritrovava con la coda, una folta peluria e le orecchie. Insomma: era un cane che guardava fisso, con l’aria di chi ti ha sistemato in un bel cul-de-sac, la mia automobile. Pensai a Dante, alla selva oscura e alla lupa: ma le ruote continuavano a slittare.

Senonché d’un tratto, come mosse a compassione per il sottoscritto, le ruote cominciarono a far presa e la Ford iniziò a muoversi. Non era la soluzione, certo: ma era un problema in meno. Passai i successivi dieci minuti ad inveire con insolenza contro i produttori di Tom Tom, a giurare a me stesso che mai più avrei adoperato quegli arnesi ed a sfruttare i dieci centimetri di spazio che quella strada metteva a disposizione alla Ford per le manovre.

Persi tre chili, ma riuscii a raggiungere Anagni in tempo. Dopo aver appurato che chi mi precedeva in graduatoria aveva intenzione di accettare l’incarico tornai alla macchina, e mi sentii dire: «Dopo-duecento-metri-svoltare-adestra».

 

Il referendum sulle trivelle era un segnale chiaro. Un fronte del “no” che mobilita quindici milioni di votanti in una consultazione il cui unico scopo vero era quello di dare una spallata a Matteo Renzi indicava inequivocabilmente che la popolarità del leader di Rignano sull’Arno è a picco. Ora, con il voto delle amministrative, quel segnale è stato confermato.

La magra figura rimediata da Giachetti, che si è visto surclassare da Virginia Raggi e che a stento ha raggiunto il ballottaggio contro un centro-destra diviso e rissoso, è infatti solo la punta dell’iceberg. A Napoli, ad esempio, Valeria Valente si è piazzata addirittura dietro al secondo classificato, il forzista Giovanni Lettieri, e tutti e due sono stati stracciati dal sindaco uscente Luigi De Magistris. Ed anche dove le cose vanno meglio, come a Torino e Milano, il risultato non è affatto esaltante: nel capoluogo piemontese c’è comunque un M5S al 30,9% (percentuale grazie a cui, oltretutto, sotto la Mole è il primo partito) e nella città meneghina Sala sopravanza Parisi di appena un punto percentuale.

Il 40,8% delle europee appare, dunque, un lontano ricordo, mentre per il Pd tornano a farsi vivi gli spettri del passato. Perché vedere Giachetti che sbanca ai Parioli e viene doppiato nelle periferie fa tornare alla mente, mutatis mutandis, il Pier Luigi Bersani che, a conclusione della campagna elettorale del 2013, si barricò coi sostenitori all’Ambra Jovinelli mentre Beppe Grillo riempiva piazza San Giovanni.

Un fatto, questo, che dovrebbe far pensare che forse non basta dare un tono energico alla leadership del Pd e che, probabilmente, la retorica del «fare», alla lunga, non paga. Molto meglio sarebbe stato – e, prima che sia troppo tardi, sarebbe ancora – ristrutturare un partito mai nato, dotarlo di un vero radicamento territoriale e di un gruppo dirigente che non sia una pura e semplice corte di yesman.