Dopo aver mangiato minestra alle mense della Caritas i poveri fumano sigarette. A volte pensano all’ex moglie e ai figli che non vedono più da sei anni. Altre volte ricordano il giorno in cui hanno firmato sul foglio delle dimissioni in bianco, col responsabile del personale che gli diceva che o quello o niente. Poi, all’occorrenza, si chiedono se in nottata farà freddo, se ci sarà altro tabacco, se incontreranno quell’amico da cui hanno imparato a giocare a carte.

Di certo i poveri non pensano a Matteo Salvini o a Luigi Di Maio, come del resto ieri non hanno pensato Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Di alcuni di loro, anzi, è lecito immaginare che i poveri ignorino addirittura il nome. Del resto: perché dovrebbero conoscerlo? Per chi è povero essere nel 2018 non è diverso dall’essere nel 2009: figuriamoci se può avere importanza una “x” da mettere sulla scheda elettorale.

Chi ha da pensare alla sopravvivenza, insomma, non ha tempo da perdere coi salvatori della patria. Formarsi un’idea sul governo non è un suo problema. Comprensibilmente.

Pare difficile, dunque, sottoscrivere l’idea – oggi largamente maggioritaria – secondo cui il successo dei populisti in Italia e in Europa deriva dalle sofferenze sociali patite dagli ultimi. È molto più probabile, invece, che l’insofferenza diffusa nei confronti del “sistema di potere” sia il frutto delle difficoltà – talvolta reali, talvolta immaginarie – dei ceti borghesi e piccolo-borghesi. Cioè di quei ceti che, a causa della crisi, hanno smesso di cambiare automobile ogni tre anni e l’hanno sostituita con l’IPhone e il corso di pilates.

Che ciò sia vero è del resto confermato dalla maggior parte degli spauracchi e delle bandiere agitate dal governo pentaleghista, che dell’ondata populista in atto è uno dei più fulgidi esempi in tutto l’Occidente. Misure come la riforma delle pensioni, la flat tax e la pace fiscale non sono forse pensate per un interlocutore piccolo-borghese e borghese? E del resto la preoccupazione per la sicurezza nelle strade non è, forse, tipica dei ceti medi?

Questo, ovviamente, non vuol dire che si tratti necessariamente di misure volte a risolvere problemi fasulli. Però, ecco, dire che si tratta di tentativi di rispondere alle esigenze degli strati più deboli della nostra società significa, semplicemente, non sapere com’è fatta la povertà.

Post scriptum. A conti fatti, tra le misure proposte dal governo, la sola almeno potenzialmente in grado di fronteggiare il nero della miseria è il reddito di cittadinanza. Ma, di fatto, non è dato sapere né dove si troveranno i soldi per realizzarlo né come si eviterà di trasformarlo in una misura puramente assistenziale.

Tomaso Montanari, sul «Fatto quotidiano», ha argomentato la tesi secondo cui, se intesa come «uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta», l’identità italiana, semplicemente, non esiste. Ernesto Galli della Loggia, dalle colonne del «Corriere della Sera», si è incaricato di replicargli dicendo che le identità esistono eccome, sono un fatto storicamente determinato e «non vi è mai stato nessuno così idiota (…) che abbia sostenuto l’esistenza di un’identità italiana nel significato che alla parola identità attribuisce Montanari».

Ora, tralasciando la non sempre limpida prosa di Galli della Loggia – che pure a più riprese ha sottoscritto appelli per contrastare le deboli competenze linguistiche dei nostri giovani -, vien da osservare che, in effetti, Montanari non ha detto che le identità non esistono. Ha detto, piuttosto, che esse non esistono se intese come un amalgama omogeneo, calato da non si sa quale altura e impermeabile a qualsiasi contaminazione esterna – mentre, viceversa, esistono come punto d’incontro di storie diverse e potenziale punto di partenza di nuovi percorsi. Insomma: Montanari ha detto, come anche della Loggia, che le identità sono un fatto storicamente determinato. Il problema è che il suo interlocutore non l’ha capito.

Del resto l’immagine di un’identità intesa come purezza e coerenza di caratteri etnici viene oggi giocata con grande frequenza – e, purtroppo, grande successo – dalla politica e basterebbe fare una chiacchierata in un qualsiasi bar di provincia per avvedersene. Ed è per questo che il discorso di Montanari, a differenza di quel che ne dice della Loggia, ha un senso: perché mira a mettere in questione un assunto completamente sballato che i più, però, considerano un dato di fatto autoevidente.

Poi, certo, non basterà un editoriale a cambiare una mentalità diffusa. Soprattutto finché le principali fonti d’informazione del Paese saranno schierate con chi comanda.

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Della Loggia ha ragione, invece, quando evidenzia che le contaminazioni etniche e culturali da cui è nata la nostra identità non sono quasi mai avvenute pacificamente – come, del resto, non ha torto nel difendere le radici cristiane della nostra civiltà che, invece, Montanari vorrebbe negare.

Quel che tuttavia non è chiaro è dove egli intenda andare a parare dicendo queste cose. Perché è vero che le «invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti» da cui sono nate le passate contaminazioni, se messe a confronto con le attuali migrazioni (la cui legittimazione è il vero obiettivo di Montanari, secondo della Loggia), sono «un precedente per nulla rassicurante». Ma è vero anche che, una volta riconosciuto questo potenziale problema, occorrerebbe ragionare delle sue eventuali soluzioni, che da Galli della Loggia non vengono nominate neanche di sfuggita.

Bisogna chiudere i porti e bloccare le frontiere? Anche qui i precedenti storici non sono rassicuranti, perché nessuna fortificazione del limes ha mai impedito il transito degli invasori. Molto più sensato sarebbe pensare a delle serie politiche di accoglienza e integrazione, che abbia occhi per i problemi posti dai flussi migratori ma che sappia anche creare le basi per un fatalmente difficile incontro tra diversi.

Ma mi rendo conto che dicendo queste cose rischio di apparire “buonista”, e dunque ben venga lo scontro di civiltà.

 

La Lega ha elaborato una proposta di legge volta a rendere obbligatoria la presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici del nostro Paese. In linea di principio non credo sia un’iniziativa sbagliata, perché – come sostengono i firmatari della proposta leghista – per aprirsi alle diversità occorre aver rispetto di se stessi e della propria identità e perché, se il Crocifisso fosse lesivo della laicità dello Stato – come invece affermano i suoi detrattori -, bisognerebbe smettere di insegnare anche la Divina Commedia di Dante e I promessi sposi o gli Inni sacri di Alessandro Manzoni.

C’è anche da dire, però, che ciò a cui stiamo assistendo nell’Italia degli ultimi anni mette seriamente in forse l’idea, fatta propria dai firmatari della proposta, secondo cui il Crocifisso è uno dei “simboli della nostra identità, collante indiscusso di una comunità”. L’idea di travolgere i campi rom con le ruspe è, infatti, ben poco evangelica, e del resto il motto “prima gli italiani” non sembra troppo conciliabile con quell’amore fraterno e disinteressato che costituisce il cardine fondamentale dell’etica cristiana. Dopodiché, certo, è chiaro che “rispettare le minoranze non vuol dire rinunciare, delegittimare o cambiare i simboli e i valori che sono parte integrante della nostra storia, della cultura e delle tradizioni del nostro Paese”, come si legge nel testo delle “Disposizioni concernenti l’esposizione del Crocifisso nelle scuole e negli uffici delle pubbliche amministrazioni”. Ma è anche evidente che aver tutela delle nostre tradizioni senza avvertire la preoccupazione di renderne vivente e operante l’insegnamento – insomma: imporre la presenza del Crocifisso negli uffici pubblici e fare spallucce di fronte ai migranti che annegano nel Mediterraneo – è il miglior modo per condannarle a morte sentendosi con la coscienza a posto.

Benché oggi sembri d’obbligo dire il contrario, insomma, l’ipocrisia non è una prerogativa dei radical chic italici, e la proposta elaborata dalla Lega circa il Crocifisso sembra esserne la prova provata al punto che qualcuno, malignamente, potrebbe ricondurla al capitolo delle famose “manovre a costo zero”. Ovvero: una operazione di marketing politico finalizzata a nascondere la sostanziale inconcludenza dell’attuale maggioranza parlamentare e dell’esecutivo.

D’altro canto un simile spirito non sarebbe troppo distante dall’effettivo sentimento religioso degli italiani. Non è forse sufficiente fare un giro tra i vari social media per imbattersi in profili in cui, accanto a link in vario modo dedicati a figure-simbolo della tradizione cristiana e della devozione popolare, compaiono allarmate denunce della presunta invasione di migranti in corso?

Post scriptum. Ovviamente l’ironia e il sarcasmo con cui molti hanno accolto la proposta della Lega va esattamente incontro ai desiderata di Salvini. Il tipo d’italiano a cui si rivolge l’attuale ministro dell’interno è convinto di essere vittima di un’invasione e che “la sinistra” stia incentivando la distruzione della nostra identità: irriderlo significa convincerlo che ha ragione.

Post post scriptum. Nella nostra società coesistono culture diverse tra loro. Il miglior modo per farle convivere, però, non è rimuovere il Crocifisso da un’aula scolastica. Casomai è prendere provvedimenti quando un ragazzino straniero subisce angherie dai suoi compagni di classe.

Bettino Craxi è stato trattato per molto tempo alla stregua di un delinquente comune. Poi, col trascorrere degli anni, la memoria collettiva ha iniziato a riappacificarsi con lui, complice forse l’esperienza berlusconiana e il suo tentativo di riabilitazione del craxismo. Oggi questo processo si è forse compiuto, e si può quasi dire che gli italiani, mentre postano su Facebook frasi attribuite a Berlinguer e Pertini e reagiscono sdegnati alla corruzione dell’attuale classe dirigente, rimpiangono gli anni in cui Bettino Craxi era al governo come una sorta di età dell’oro in cui la sovranità nazionale e i diritti sociali venivano tutelati.

Ora, non è incomprensibile che si provi malinconia per Craxi e il craxismo. Basterebbe rileggere le dichiarazioni e i testi programmatici dell’allora segretario del Psi per entrare in un mondo in cui la politica aveva ancora una dimensione e uno spessore culturale e dove esprimere un pensiero più articolato di qualche irrealizzabile promessa elettorale era ancora possibile. È però proprio leggendo quelle dichiarazioni e quei testi programmatici – e contestualizzandoli adeguatamente – che l’odierna “malinconia craxiana” appare quanto mai paradossale.

Il leader socialista, infatti, non fu per nulla il fiero custode della sovranità nazionale e dei diritti dei lavoratori che oggi viene da più parti propagandato. Al contrario, misure come l’abolizione di quattro punti della scala mobile rispondono proprio a quella logica monetarista e neoliberista che spesso, oggi, viene additata – non senza obiettive ragioni – come la principale responsabile della crisi in cui siamo incappati. Né è possibile dimenticare che l’installazione degli Euromissili in Italia, che la Nato aveva deciso già nel 1979, fu resa possibile dall’avvento di Bettino Craxi a Palazzo Chigi nel 1983 e che il leader socialista fu fautore del primo, organico tentativo di riforma costituzionale della storia della nostra Repubblica.

Dopodiché, certo, è impossibile dimenticare i fatti di Sigonella e una certa propensione terzomondista solitamente assente nella politica estera italiana. Ma tutto questo – e molto altro ancora – va letto nel quadro di una politica estera che intendeva assegnare all’Italia un ruolo di potenza regionale nello scacchiere mediterraneo e non certo in un rifiuto dell’atlantismo.

Nel modo in cui rimpiangono Craxi, insomma, gli italiani mostrano di avere la memoria corta. Ma mostrano anche – e questo è, forse, l’aspetto più inquietante della faccenda – di aver ricostruito il passato alla luce di ciò di cui si sentono privati nel presente.

 

La Festa della Liberazione è da tempo – e forse da sempre – fonte di polemiche. Il fatto in sé è di quelli che mettono di malumore, perché mostra con evidenza il persistere di una subcultura fascistoide assai dura a morire nel nostro costume nazionale. Ma quanti discutono sull’effettivo valore del 25 aprile tendono quasi sempre a rifiutare la definizione di “neofascisti” e motivano le loro perplessità impiegando argomenti che, almeno sulla carta (o in apparenza), non comportano una celebrazione del defunto regime mussoliniano o di quella sua ridicola parodia che fu la R.S.I.

Personalità come Diego Fusaro, per esempio, sostengono che la lotta resistenziale ha avuto il merito di concorrere alla liberazione dal nazifascismo ma anche il demerito di farci finire sotto la tutela americana, che ha inevitabilmente limitato la nostra sovranità nazionale. Una critica in effetti non nuova – tutto il dibattito alimentato dalla firma dei Protocolli di Roma (1944) ruota intorno a questi temi – che, però, non considera che la Resistenza non liberò l’Italia dal Male ma, più modestamente e concretamente, da fascisti e nazisti. Il fatto che all’indomani del conflitto il mondo abbia assunto una conformazione a blocchi e che l’Italia si sia collocata a occidente non azzera i motivi di giubilo per il contributo dato dagli italiani alla fine di regimi come quelli di Mussolini e Hitler. Anche perché, a conti fatti, nella zoppicante democrazia postbellica le cose sono andate molto meglio che nei regimi totalitari degli anni Venti e Trenta.

Altri, come Gianluca Veneziani, affermano che la lotta resistenziale fu un fatto limitato a un numero relativamente ristretto di persone – i partigiani – e che, dunque, non si trattò di una rivolta popolare. Anche in questo caso la critica non è nuova – Ernesto Galli della Loggia, parlando di “morte della patria”, ha detto cose molto simili, e del resto la storiografia di sinistra ha a lungo alimentato il mito della “Resistenza tradita” impiegando questi argomenti – e anche qui c’è da rilevare che è sbagliato il focus. Se la lotta di liberazione fosse stata un fatto esclusivamente militare, infatti, avrebbe ragione Veneziani: i partigiani furono una porzione assai ridotta di popolazione (per di più collocata prevalentemente a Nord). Il punto, però, è che la Resistenza non fu solo una questione militare, e basterebbe leggere la più qualificata storiografia italiana degli ultimi vent’anni (Scoppola, Peli, Riccardi ecc.) per rendersene conto.

I dirigenti del Cln, per esempio, non furono figure armate, eppure senza di loro non si capisce nulla della lotta di liberazione. Oppure, se volessimo allargare il campo, dovremmo considerare il ruolo avuto dalle donne nella Resistenza, il quale è stato ingiustamente misconosciuto dalla stessa storiografia post-resistenziale. E ancora: è del tutto evidente che, non essendo un vero e proprio esercito, senza il sostegno delle popolazioni residenti nei territori in cui operarono i partigiani non avrebbero potuto ingaggiare alcuna lotta armata, e quindi il rapporto tra combattenti e civili è un fatto coessenziale alla Resistenza. Ma poi: perché non dovrebbero essere parte del movimento resistenziale anche gli internati militari italiani nei lager che rifiutarono di tornare in patria a servire la R.S.I.? E che dire di frati e suore che, per iniziativa di Pio XII, aprirono le porte dei conventi agli ebrei e ai perseguitati politici? Certo, in quest’ottica la Resistenza perde i suoi connotati “di sinistra”. Ma li perde proprio perché acquista quel profilo più compiutamente “popolare” che Veneziani intende negarle.

Ovviamente un discorso del genere presta il fianco a parecchie critiche e, sotto molti punti di vista, è in via di definizione anche per gli storici. Certo, però, se si discutesse di questi temi senza arrampicarsi sugli specchi della sovranità popolare o dei numeri del movimento partigiano si sarebbe fatto un grandissimo passo in avanti.

Il voto del 4 marzo ha segnato sicuramente una discontinuità nella storia politica del nostro Paese. Il Movimento 5 Stelle e la nuova Lega di Salvini, con la loro netta affermazione, hanno spazzato via la diade Pd-FI, sulla quale si è sorretto il sistema politico della Seconda Repubblica. Ciò posto è però necessario cogliere con precisione la natura di questo cambiamento, perché altrimenti si corre il rischio di andare incontro a letture estreme e idealizzanti, prive di una reale presa sulle cose. Sarà dunque opportuno sgomberare il campo da due pregiudizi che in questi giorni stanno circolando con insistenza.

Il primo è quello secondo cui il voto del 4 marzo ci avrebbe consegnato un Paese politicamente spaccato in due. Certo, è innegabile che nel settentrione il voto è a dominante forza-leghista, mentre al sud chi prevale nettamente è il Movimento 5 Stelle. Ma è altrettanto evidente che l’affermazione pentastellata al nord non è stata affatto irrisoria, come del resto è stata notevole la crescita dei leghisti nel Mezzogiorno. Non mancano, ad esempio, regioni settentrionali in cui l’M5S è primo partito, come del resto non sono infrequenti risultati a due cifre per la Lega nel sud. Tutto questo vuol dire che le due macro-aree prese in considerazione rispondono sì a logiche distinte, ma queste logiche hanno una comune ragion d’essere che, se si è davvero intenzionati a capire cosa è accaduto con questo voto, è bene individuare.

Ora, è naturale che in questa sede il sottoscritto non ha gli strumenti necessari per un’analisi del genere. Credo tuttavia di non andare troppo lontano dal vero se dico che, probabilmente, ciò che più di ogni altra cosa accomuna il nord e il sud Italia, in questo frangente, è il rifiuto dell’immigrazione e di tutto ciò che, nel bene e nel male, gravita intorno a essa: un tema che per la Lega è un cavallo di battaglia, ma su cui l’M5S riproduce, in forme più sfumate e ambigue, posizioni simili. Basti pensare al fatto che le violenze ai danni di immigrati, negli ultimi anni, si sono verificate sostanzialmente in egual misura in tutte le parti d’Italia, e che la domanda di sicurezza è enormemente cresciuta in tutto il Paese.

Già questo mette in seria discussione il secondo pregiudizio da togliere di mezzo, e cioè quello secondo cui gli italiani avrebbero votato mossi dalla rabbia nei confronti di un establishment ottuso e autoreferenziale. Il sentimento dominante verso quest’ultimo è stato, piuttosto, la sfiducia, ovvero la convinzione – spesso tutt’altro che infondata – che il sistema di potere vigente sia radicalmente estraneo alle esigenze reali dei cittadini. Non per nulla il grosso della – flebilissima – campagna elettorale del Partito democratico si è giocato sul tema dei diritti civili, mentre le richieste dell’elettorato erano di carattere perlopiù securitario ed economico.

Ed è proprio sul terreno economico che, a mio avviso, si può trovare la più convincente spiegazione della dominante pentastellata nel Mezzogiorno. Il sud Italia vive infatti drammaticamente il problema della disoccupazione e del lavoro nero, e la promessa del reddito di cittadinanza, su cui l’M5S ha posto molta enfasi, ha senz’altro avuto un ruolo decisivo nell’orientare il voto. Del resto non si tratta di un fatto del tutto inedito: alle europee del 2014, infatti, gli 80 euro elargiti dal governo Renzi hanno contribuito in modo significativo a rendere il Pd il primo partito del sud.

Alla luce di tutto questo appare evidente che la significativa discontinuità politica segnata dal voto del 4 marzo non comporta, come un po’ enfaticamente molti mostrano di ritenere, un salto di qualità morale o antropologico. Gli italiani, insomma, non sono cambiati: hanno solo deciso di cambiare i loro referenti politici perché comprensibilmente stanchi degli appuntamenti mancati dai loro predecessori. Nella speranza di avere da Salvini e Di Maio le risposte che si aspettano.

Quest’anno si è molto parlato dei simboli del Natale e del pericolo a cui sono esposti dal fluire della storia. Secondo molti, infatti, l’arrivo degli immigrati nei nostri Paesi sta modificando i nostri usi e costumi tradizionali, portandoci ad abbandonare o addirittura a rinnegare i valori consegnatici dalla tradizione.

Ora, benché si tratti di una convinzione sbagliata – quasi una versione vulgata della nietzschiana «morte di Dio» -, questa tesi contiene un germe di verità. Non si può negare, infatti, che la nostra società è in larga misura scristianizzata e che la forza evocativa del presepe, di Gesù Bambino, della stella cometa ecc. non sia più quella di un tempo. Quel che si può e si deve negare, però, è l’assunto secondo cui tutto questo sarebbe accaduto a causa degli ultimi della Terra giunti nella nostra cara Europa nella speranza di trovare una vita migliore.

A ben guardare, infatti, lo spirito della grotta di Betlemme, con la sua umile semplicità, è più distante dallo sfrenato (e occidentalissimo) consumismo che da diversi decenni pare aver stregato ognuno di noi che dalle paure che spingono un padre di famiglia senegalese ad abbandonare la sua terra martoriata. Potrà anzi essere utile leggere, in proposito, Troppo Natale!, un graziosissimo raccontino in cui Dino Buzzati immagina lo sgomento che proverebbero il bue e l’asinello del presepe se scendessero dal Paradiso in occasione del Natale e si trovassero di fronte l’ansioso andirivieni imposto dalla società dei consumi («C’è poca aria di stelle, qui», dice d’un tratto il bue). Insomma, se lo spirito del Natale è morto dobbiamo sapere che i suoi assassini siamo noi senza cercare facili colpe in persone che non hanno avuto la fortuna di vivere immerse nel nostro stesso benessere.

Ma c’è poi da chiedersi: davvero il Natale è solo una tradizione? Davvero la ricorrenza della nascita di Cristo va semplicemente ascritta agli usi e costumi di una più o meno ampia comunità di persone? Se si presta ascolto alla pretesa cristiana il semplice porre simili domande suona quasi come una bestemmia. La nascita di Cristo pretende di essere, infatti, una provocazione della ragione, la quale viene posta di fronte all’Incarnazione del Verbo ed è chiamata non a rinunciare alle sue consuetudini, ma a ripensare alla radice se stessa.

Si può ridurre tutto questo a un fatto di folklore locale? Ovviamente sì: ma solo a patto di non prenderlo sul serio. Chiunque lo prenda sul serio, credente o meno, non potrà non considerarlo, al contrario, un invito a riconsiderare il proprio modo di essere al mondo.

Quando l’anno volge al termine è normale voler fare il punto della situazione. Non sarà dunque strano se, a pochi giorni dall’inizio delle festività natalizie, mi è venuta voglia di stilare una lista dei dieci libri più significativi letti quest’anno. Ovviamente potrei incappare in letture decisive anche in questi giorni – ci sono alcune cose che ho in programma di leggere – e, in tal caso, la lista sarebbe manchevole. Ma quest’articolo non ha l’ambizione di prendere il posto del Canone occidentale di Harold Bloom, e quindi, qualora si manifestassero, si tratterà di manchevolezze tollerabili.

  1. B. Pascal, Pensieri. È, ovviamente, un classico. Pascal vuol mostrare, con un incedere volutamente frammentario e aforistico, quanto la religione cristiana sia in grado di rendere l’uomo trasparente a se stesso e quanto vuota sia la sua esistenza se privata della fede. È facile individuare il passo più celebre – quello della “scommessa su Dio” –, ma è difficile individuare il passo migliore.
  2. J. Joyce, Gente di Dublino. Questi racconti sono stati spesso sottovalutati, ma hanno una grande potenza narrativa. Le storie raccontate sono esilissime e, talvolta, addirittura inesistenti: quel che conta per Joyce è raccontare un’Irlanda piegata su se stessa, in cui si agitano vite interrotte e virtualità inespresse. I racconti più famosi sono Evelyne e I morti, ma non dimenticherei Cenere.
  3. J. Joyce, Ritratto dell’artista da giovane. Qui comincia a far capolino lo stream of consciousness che dominerà la scena nell’Ulisse. Si tratta di un romanzo di formazione incentrato sulla figura di Stephen Dedalus – trasparente alter ego dell’autore –, giovane irlandese per il quale crescere significa prendere consapevolezza del bisogno di abbandonare una terra natia priva di stimoli ed energie, consapevolmente rinunciataria rispetto alla possibilità di dar vita a un proprio progetto di modernità. Le pagine dedicate al collegio – che Dedalus frequenta dai gesuiti – alla riflessione estetica – con particolare riferimento a Tommaso d’Aquino – sono tra le più intense.
  4. P. Levi, I sommersi e i salvati. Si tratta di una lettura dolorosa, soprattutto se si pensa alle nostalgie fascistoidi che si agitano nella nostra società. Qui Primo Levi affronta l’orrore della Shoah ricorrendo alla forma-saggio – anche se sono molto frequenti gli inserti narrativi – e tenta di fornire una lettura il più possibile neutra della sua esperienza di deportato ad Auschwitz. Lo scopo è quello di trovare il senso di quegli avvenimenti attraverso la scrittura: l’esito finale è un amaro senso di colpa dovuto alla consapevolezza di essergli sopravvissuto.
  5. A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe. Un classico della letteratura per ragazzi. È una lettura molto intensa, con la quale l’autore intende evidenziare il valore di ogni singolo brandello di realtà attraverso il recupero della prospettiva dell’infanzia. L’incontro tra il Piccolo Principe e la Volpe è una delle pagine più belle della letteratura novecentesca.
  6. M. Tobino, Per le antiche scale. Bellissima lettura. In questi racconti Tobino rievoca, con malinconia e grande partecipazione umana, la sua esperienza di psichiatra in servizio presso il manicomio di Maggiano, in provincia di Lucca. I malati di mente, nella narrazione di Tobino, non sono semplicemente casi clinici o figure da compatire, ma assumono uno spessore che li rende riconoscibili, mostrando ciascuno di avere una storia e una personalità.
  7. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso. Si tratta di una breve ma intensa autobiografia intellettuale con cui Croce puntava a formulare un bilancio della sua vita culturale e, contestualmente, a delineare gli orientamenti futuri. L’aspetto forse più interessante del libro è la presa d’atto, da parte del filosofo di Pescasseroli, dell’impossibilità di delineare un sistema compiuto. La vita stessa non è sistematica, e quindi per comprenderla bisognerà avere sempre il coraggio di misurarsi con la sua indefinitezza.
  8. T. Landolfi, Racconto d’autunno. Ambientato durante una guerra – che senza troppe difficoltà può essere identificata con la lotta di liberazione dall’invasore nazifascista in Italia –, questo breve romanzo dai tratti gotici è pervaso in lungo e in largo dal senso del mistero. Un soldato, nel suo incerto vagare, viene ospitato in una casa sperduta nel bosco da un enigmatico individuo e dai suoi due inquietanti cani, e nel corso del tempo si rende conto di vivere al cospetto di uno spazio in cui realtà e sogno confinano e, spesso, sconfinano l’uno nell’altro.
  9. S. Benni, Margherita Dolcevita. Si tratta di un romanzo molto delicato ma assai vario per registri e soluzioni stilistiche. In esso si racconta la storia di Margherita, un’intelligentissima ragazzina cresciuta con la sua famigliola in campagna, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo dei nuovi vicini di casa, i coniugi Del Bene. Da quel momento, infatti, il mondo della piccola Margherita viene progressivamente eroso dall’avidità e dal consumismo di cui i Del Bene saranno portatori.
  10. C. Cipparrone, Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi. Si tratta di un agile volumetto con cui il poeta Carlo Cipparrone rievoca il suo rapporto con Carlo Betocchi e, più in generale, il suo amore-odio per la natia Calabria, terra ricca di energie ma al tempo stesso autocondannatasi a una apparentemente insuperabile condizione di marginalità. Le pagine dedicate ai poeti calabresi – Lorenzo Calogero, Nerio Nunziata ecc. –, oltre a mettere in risalto esperienze poetiche nate in provincia ma per nulla provinciali, sono di una grande raffinatezza.

Molti di noi hanno la sensazione che la lingua italiana sia in serio pericolo. L’antica purezza della nostra parlata sarebbe infatti messa a repentaglio dal dilagare degli anglicismi, i quali starebbero snaturando l’idioma nazionale.

Ora: è senz’altro vero che gli anglicismi suonano spesso, alle nostre orecchie, come ospiti sgraditi, come del resto è innegabile che la loro presenza è andata crescendo a dismisura nel corso del tempo. Non credo, però, che la diffusione di voci anglosassoni nella lingua italiana sia un problema dell’entità spesso denunciata da intellettuali e opinionisti.

In primo luogo, infatti, occorre considerare che nessun anglicismo potrà mai minare la purezza dell’idioma nazionale per il semplice fatto che lingue “pure”, in realtà, non esistono né sono mai esistite. Già il Dante Alighieri del De vulgari eloquentia sapeva, infatti, che le lingue si sviluppano e mutano nel tempo e nello spazio anche grazie all’apporto, talora determinante, delle lingue straniere. E qualsiasi linguista del nostro tempo sa, a conferma di quel che diceva Dante – il quale, sarà bene ricordarlo, è quasi unanimemente considerato il padre dell’idioma nazionale – che la nostra lingua contiene al proprio interno voci provenienti dalle lingue germaniche, dallo spagnolo, dal francese, addirittura dall’arabo e dall’ebraico ecc. Altro che lingua “pura”!

In secondo luogo bisogna tener presente il fatto che in certe aree del Paese – e non parlo necessariamente della provincia “profonda” – l’italiano non è messo in crisi dall’inglese ma, al contrario, dal rilancio delle parlate dialettali. Per quanto ciò possa apparire paradossale, infatti, per molti parlanti la lingua naturale è il dialetto del proprio territorio e la “lingua del sì” è una sorta di seconda lingua, di inglese appena più familiare di quello in uso a Londra. A riprova di ciò basti pensare all’allarmata lettera al Governo scritta, nel febbraio del 2017, da oltre seicento docenti universitari intenti a denunciare le deboli competenze linguistiche dei nostri studenti. Mai come in questo, probabilmente, Pasolini – che con le sue Nuove questioni linguistiche, nel 1964, annunciava il declino dei dialetti in favore di un italiano “tecnocratico” – sbagliò profezia.

Quella sugli anglicismi e sulla “purezza” della nostra lingua sembra essere, insomma, una polemica legata più all’eterno classicismo nazionale – strettamente connesso a un triste nazionalismo di ritorno – che ad altro. Del resto l’idea che sia necessario ricercare e tutelare una lingua nazionale “pura”, come se le lingue non nascessero dal rapporto dialettico tra norma e uso – o, per dirla con Ferdinand de Saussure, tra langue e parole –, è già stata formulata tra XVIII e XIX secolo dai puristi come l’abate Antonio Cesari o il marchese Basilio Puoti. Tutte figure surclassate da un Alessandro Manzoni che, invece, sentiva l’esigenza di rivedere la lingua dei Promessi sposi attraverso una sobria “risciacquatura dei panni in Arno”.