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La Festa della Liberazione è da tempo – e forse da sempre – fonte di polemiche. Il fatto in sé è di quelli che mettono di malumore, perché mostra con evidenza il persistere di una subcultura fascistoide assai dura a morire nel nostro costume nazionale. Ma quanti discutono sull’effettivo valore del 25 aprile tendono quasi sempre a rifiutare la definizione di “neofascisti” e motivano le loro perplessità impiegando argomenti che, almeno sulla carta (o in apparenza), non comportano una celebrazione del defunto regime mussoliniano o di quella sua ridicola parodia che fu la R.S.I.

Personalità come Diego Fusaro, per esempio, sostengono che la lotta resistenziale ha avuto il merito di concorrere alla liberazione dal nazifascismo ma anche il demerito di farci finire sotto la tutela americana, che ha inevitabilmente limitato la nostra sovranità nazionale. Una critica in effetti non nuova – tutto il dibattito alimentato dalla firma dei Protocolli di Roma (1944) ruota intorno a questi temi – che, però, non considera che la Resistenza non liberò l’Italia dal Male ma, più modestamente e concretamente, da fascisti e nazisti. Il fatto che all’indomani del conflitto il mondo abbia assunto una conformazione a blocchi e che l’Italia si sia collocata a occidente non azzera i motivi di giubilo per il contributo dato dagli italiani alla fine di regimi come quelli di Mussolini e Hitler. Anche perché, a conti fatti, nella zoppicante democrazia postbellica le cose sono andate molto meglio che nei regimi totalitari degli anni Venti e Trenta.

Altri, come Gianluca Veneziani, affermano che la lotta resistenziale fu un fatto limitato a un numero relativamente ristretto di persone – i partigiani – e che, dunque, non si trattò di una rivolta popolare. Anche in questo caso la critica non è nuova – Ernesto Galli della Loggia, parlando di “morte della patria”, ha detto cose molto simili, e del resto la storiografia di sinistra ha a lungo alimentato il mito della “Resistenza tradita” impiegando questi argomenti – e anche qui c’è da rilevare che è sbagliato il focus. Se la lotta di liberazione fosse stata un fatto esclusivamente militare, infatti, avrebbe ragione Veneziani: i partigiani furono una porzione assai ridotta di popolazione (per di più collocata prevalentemente a Nord). Il punto, però, è che la Resistenza non fu solo una questione militare, e basterebbe leggere la più qualificata storiografia italiana degli ultimi vent’anni (Scoppola, Peli, Riccardi ecc.) per rendersene conto.

I dirigenti del Cln, per esempio, non furono figure armate, eppure senza di loro non si capisce nulla della lotta di liberazione. Oppure, se volessimo allargare il campo, dovremmo considerare il ruolo avuto dalle donne nella Resistenza, il quale è stato ingiustamente misconosciuto dalla stessa storiografia post-resistenziale. E ancora: è del tutto evidente che, non essendo un vero e proprio esercito, senza il sostegno delle popolazioni residenti nei territori in cui operarono i partigiani non avrebbero potuto ingaggiare alcuna lotta armata, e quindi il rapporto tra combattenti e civili è un fatto coessenziale alla Resistenza. Ma poi: perché non dovrebbero essere parte del movimento resistenziale anche gli internati militari italiani nei lager che rifiutarono di tornare in patria a servire la R.S.I.? E che dire di frati e suore che, per iniziativa di Pio XII, aprirono le porte dei conventi agli ebrei e ai perseguitati politici? Certo, in quest’ottica la Resistenza perde i suoi connotati “di sinistra”. Ma li perde proprio perché acquista quel profilo più compiutamente “popolare” che Veneziani intende negarle.

Ovviamente un discorso del genere presta il fianco a parecchie critiche e, sotto molti punti di vista, è in via di definizione anche per gli storici. Certo, però, se si discutesse di questi temi senza arrampicarsi sugli specchi della sovranità popolare o dei numeri del movimento partigiano si sarebbe fatto un grandissimo passo in avanti.

Quando l’anno volge al termine è normale voler fare il punto della situazione. Non sarà dunque strano se, a pochi giorni dall’inizio delle festività natalizie, mi è venuta voglia di stilare una lista dei dieci libri più significativi letti quest’anno. Ovviamente potrei incappare in letture decisive anche in questi giorni – ci sono alcune cose che ho in programma di leggere – e, in tal caso, la lista sarebbe manchevole. Ma quest’articolo non ha l’ambizione di prendere il posto del Canone occidentale di Harold Bloom, e quindi, qualora si manifestassero, si tratterà di manchevolezze tollerabili.

  1. B. Pascal, Pensieri. È, ovviamente, un classico. Pascal vuol mostrare, con un incedere volutamente frammentario e aforistico, quanto la religione cristiana sia in grado di rendere l’uomo trasparente a se stesso e quanto vuota sia la sua esistenza se privata della fede. È facile individuare il passo più celebre – quello della “scommessa su Dio” –, ma è difficile individuare il passo migliore.
  2. J. Joyce, Gente di Dublino. Questi racconti sono stati spesso sottovalutati, ma hanno una grande potenza narrativa. Le storie raccontate sono esilissime e, talvolta, addirittura inesistenti: quel che conta per Joyce è raccontare un’Irlanda piegata su se stessa, in cui si agitano vite interrotte e virtualità inespresse. I racconti più famosi sono Evelyne e I morti, ma non dimenticherei Cenere.
  3. J. Joyce, Ritratto dell’artista da giovane. Qui comincia a far capolino lo stream of consciousness che dominerà la scena nell’Ulisse. Si tratta di un romanzo di formazione incentrato sulla figura di Stephen Dedalus – trasparente alter ego dell’autore –, giovane irlandese per il quale crescere significa prendere consapevolezza del bisogno di abbandonare una terra natia priva di stimoli ed energie, consapevolmente rinunciataria rispetto alla possibilità di dar vita a un proprio progetto di modernità. Le pagine dedicate al collegio – che Dedalus frequenta dai gesuiti – alla riflessione estetica – con particolare riferimento a Tommaso d’Aquino – sono tra le più intense.
  4. P. Levi, I sommersi e i salvati. Si tratta di una lettura dolorosa, soprattutto se si pensa alle nostalgie fascistoidi che si agitano nella nostra società. Qui Primo Levi affronta l’orrore della Shoah ricorrendo alla forma-saggio – anche se sono molto frequenti gli inserti narrativi – e tenta di fornire una lettura il più possibile neutra della sua esperienza di deportato ad Auschwitz. Lo scopo è quello di trovare il senso di quegli avvenimenti attraverso la scrittura: l’esito finale è un amaro senso di colpa dovuto alla consapevolezza di essergli sopravvissuto.
  5. A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe. Un classico della letteratura per ragazzi. È una lettura molto intensa, con la quale l’autore intende evidenziare il valore di ogni singolo brandello di realtà attraverso il recupero della prospettiva dell’infanzia. L’incontro tra il Piccolo Principe e la Volpe è una delle pagine più belle della letteratura novecentesca.
  6. M. Tobino, Per le antiche scale. Bellissima lettura. In questi racconti Tobino rievoca, con malinconia e grande partecipazione umana, la sua esperienza di psichiatra in servizio presso il manicomio di Maggiano, in provincia di Lucca. I malati di mente, nella narrazione di Tobino, non sono semplicemente casi clinici o figure da compatire, ma assumono uno spessore che li rende riconoscibili, mostrando ciascuno di avere una storia e una personalità.
  7. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso. Si tratta di una breve ma intensa autobiografia intellettuale con cui Croce puntava a formulare un bilancio della sua vita culturale e, contestualmente, a delineare gli orientamenti futuri. L’aspetto forse più interessante del libro è la presa d’atto, da parte del filosofo di Pescasseroli, dell’impossibilità di delineare un sistema compiuto. La vita stessa non è sistematica, e quindi per comprenderla bisognerà avere sempre il coraggio di misurarsi con la sua indefinitezza.
  8. T. Landolfi, Racconto d’autunno. Ambientato durante una guerra – che senza troppe difficoltà può essere identificata con la lotta di liberazione dall’invasore nazifascista in Italia –, questo breve romanzo dai tratti gotici è pervaso in lungo e in largo dal senso del mistero. Un soldato, nel suo incerto vagare, viene ospitato in una casa sperduta nel bosco da un enigmatico individuo e dai suoi due inquietanti cani, e nel corso del tempo si rende conto di vivere al cospetto di uno spazio in cui realtà e sogno confinano e, spesso, sconfinano l’uno nell’altro.
  9. S. Benni, Margherita Dolcevita. Si tratta di un romanzo molto delicato ma assai vario per registri e soluzioni stilistiche. In esso si racconta la storia di Margherita, un’intelligentissima ragazzina cresciuta con la sua famigliola in campagna, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo dei nuovi vicini di casa, i coniugi Del Bene. Da quel momento, infatti, il mondo della piccola Margherita viene progressivamente eroso dall’avidità e dal consumismo di cui i Del Bene saranno portatori.
  10. C. Cipparrone, Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi. Si tratta di un agile volumetto con cui il poeta Carlo Cipparrone rievoca il suo rapporto con Carlo Betocchi e, più in generale, il suo amore-odio per la natia Calabria, terra ricca di energie ma al tempo stesso autocondannatasi a una apparentemente insuperabile condizione di marginalità. Le pagine dedicate ai poeti calabresi – Lorenzo Calogero, Nerio Nunziata ecc. –, oltre a mettere in risalto esperienze poetiche nate in provincia ma per nulla provinciali, sono di una grande raffinatezza.

Molti di noi hanno la sensazione che la lingua italiana sia in serio pericolo. L’antica purezza della nostra parlata sarebbe infatti messa a repentaglio dal dilagare degli anglicismi, i quali starebbero snaturando l’idioma nazionale.

Ora: è senz’altro vero che gli anglicismi suonano spesso, alle nostre orecchie, come ospiti sgraditi, come del resto è innegabile che la loro presenza è andata crescendo a dismisura nel corso del tempo. Non credo, però, che la diffusione di voci anglosassoni nella lingua italiana sia un problema dell’entità spesso denunciata da intellettuali e opinionisti.

In primo luogo, infatti, occorre considerare che nessun anglicismo potrà mai minare la purezza dell’idioma nazionale per il semplice fatto che lingue “pure”, in realtà, non esistono né sono mai esistite. Già il Dante Alighieri del De vulgari eloquentia sapeva, infatti, che le lingue si sviluppano e mutano nel tempo e nello spazio anche grazie all’apporto, talora determinante, delle lingue straniere. E qualsiasi linguista del nostro tempo sa, a conferma di quel che diceva Dante – il quale, sarà bene ricordarlo, è quasi unanimemente considerato il padre dell’idioma nazionale – che la nostra lingua contiene al proprio interno voci provenienti dalle lingue germaniche, dallo spagnolo, dal francese, addirittura dall’arabo e dall’ebraico ecc. Altro che lingua “pura”!

In secondo luogo bisogna tener presente il fatto che in certe aree del Paese – e non parlo necessariamente della provincia “profonda” – l’italiano non è messo in crisi dall’inglese ma, al contrario, dal rilancio delle parlate dialettali. Per quanto ciò possa apparire paradossale, infatti, per molti parlanti la lingua naturale è il dialetto del proprio territorio e la “lingua del sì” è una sorta di seconda lingua, di inglese appena più familiare di quello in uso a Londra. A riprova di ciò basti pensare all’allarmata lettera al Governo scritta, nel febbraio del 2017, da oltre seicento docenti universitari intenti a denunciare le deboli competenze linguistiche dei nostri studenti. Mai come in questo, probabilmente, Pasolini – che con le sue Nuove questioni linguistiche, nel 1964, annunciava il declino dei dialetti in favore di un italiano “tecnocratico” – sbagliò profezia.

Quella sugli anglicismi e sulla “purezza” della nostra lingua sembra essere, insomma, una polemica legata più all’eterno classicismo nazionale – strettamente connesso a un triste nazionalismo di ritorno – che ad altro. Del resto l’idea che sia necessario ricercare e tutelare una lingua nazionale “pura”, come se le lingue non nascessero dal rapporto dialettico tra norma e uso – o, per dirla con Ferdinand de Saussure, tra langue e parole –, è già stata formulata tra XVIII e XIX secolo dai puristi come l’abate Antonio Cesari o il marchese Basilio Puoti. Tutte figure surclassate da un Alessandro Manzoni che, invece, sentiva l’esigenza di rivedere la lingua dei Promessi sposi attraverso una sobria “risciacquatura dei panni in Arno”.

Le bussole di bordo smisero di funzionare non appena varcammo il Mar dei Sargassi. Fino a poco prima indicavano tutte il Nord, com’è naturale che sia; ma da quel momento in poi presero ad andare ciascuna per conto suo, come se fossero governate da una forza misteriosa.

L’equipaggio delle tre caravelle andò in fibrillazione. Gli anziani raccontavano che varcare le Colonne d’Ercole era un atto di grave superbia agli occhi di Dio e che tutti quelli che ci avevano provato erano stati risucchiati dal mare dopo che dei demoni avevano preso il controllo delle loro imbarcazioni. Quelle bussole impazzite potevano essere un primo segnale della fine tremenda che ci aspettava.

Io tendevo a non credere a queste storie ma confesso che ebbi paura e, quando i marinai decisero di inviare una delegazione nello studiolo di Colombo, non mi opposi. Quel genovese maledetto poteva aver trovato una nuova via per le Indie o anche scoperto un nuovo mondo – pensavo –, ma la mia pelle era più importante.

Così entrammo nel suo studio la sera stessa e lo trovammo seduto alla scrivania. A guidare la delegazione c’era Martín Pinzòn con un diavolo per capello. Non eravamo lì per trattare.

«Messer Colombo – esordì Pinzòn –, pur con tutto il rispetto che si deve al gran navigatore che siete siamo qui non per ragionare con voi, ma per comunicarvi la nostra volontà».

Il genovese non batté ciglio e, anzi, ascoltò assorto. Sembrava addirittura interessato.

«Quest’oggi – proseguì Pinzòn – dei demoni hanno preso possesso delle bussole di bordo, ciascuna delle quali ha iniziato ad andare per suo conto. È vero quel che dicevano gli anziani, messer Colombo: non c’è scampo per chi ha l’ardire di oltrepassare le Colonne d’Ercole».

Colombo restava fermo, con l’espressione di uno che ascolta una amena conversazione sull’Orlando innamorato del Boiardo. Pinzòn si asciugò la fronte con la mano destra.

«Per questo motivo noi tutti abbiamo deciso che da adesso bisogna invertire la rotta e tornare a casa. Non vogliamo restare intrappolati nelle viscere degli abissi», e queste ultime parole le pronunciò più rapidamente, come se nel frattempo sentisse il bisogno di inghiottire qualcosa.

Colombo restò immobile per qualche secondo. Poi assunse un’aria vagamente interrogativa e si alzò dalla sedia. Era un uomo assai alto, con molti capelli neri da cui si intravedeva qualche filo d’argento e due occhi chiari che, si raccontava, avevano fatto girar la testa a parecchie donne. Si recò in silenzio verso la finestrella della cabina e, dopo averla raggiunta, si mise a guardare il tramonto dandoci le spalle. Tutti ci interrogammo su cosa stesse pensando e quali fossero le sue intenzioni.

Pinzòn guardò i compagni alla sua destra, poi si voltò dall’altra parte. Non capii se i suoi occhi volevano infondere o cercare sicurezza. In quel momento Colombo esordì: «Davvero voi credete a simili fandonie?»

Non sapemmo rispondere che col silenzio. Quel diavolaccio d’un genovese non si era voltato e dal tono che aveva adoperato non riuscivamo a capire se era irritato o in vena di scherzi. Pinzòn aveva lo sguardo basso.

«Possa il Signore Iddio perdonare il vostro superstizioso timore. Pensare che Egli vi abbia dotato di intelletto ed energia per poi ridurvi a non poter varcare uno stretto come quello delle Colonne d’Ercole significa offenderlo gravemente. Ma in ogni caso voglio ascoltarvi»

«Ma messer Colombo, le bussole per davvero sembrano possedute da una forza demoniaca!», balbettò Pinzòn.

«L’abbiamo visto tutti», aggiunse un altro marinaio; «Quant’è vero Iddio!» confermò un altro ancora mentre tutti annuivano con la testa.

A quel punto Colombo si voltò verso di noi. Aveva stampato in volto un sorriso sornione, come quello del gatto che fa fuggire il topo nell’attesa di riacciuffarlo non appena ne abbia voglia. In quel momento capii che quel genovese aveva ancora una volta fatto l’uovo.

«Messer Colombo, non faccia così!», proruppe Pinzòn.

«Voglio ascoltarvi» rispose Colombo. «E proprio perché voglio ascoltarvi – proseguì – ho deciso di farvi dono delle mie carte nautiche. Credo che dovrete rispondere di fronte a Dio di quel che state facendo: ma se voi desiderate fare di testa vostra non posso impedirvelo. In fin dei conti nemmeno io so perché le bussole sono impazzite e poi voi siete un equipaggio intero mentre io sono uno soltanto»

Pinzòn perse il colore in volto, come del resto noi tutti. Io sentii una specie di fastidio nervoso allo stomaco, come se la pancia di riempisse d’aria.

«Ma messere…», dissi, e fui per un attimo interrotto dal movimento dei suoi occhi, che da Pinzòn si spostarono su di me. «Messer Colombo – ripresi –, noi quelle carte non sappiamo leggerle. Voi siete un navigatore: noi solo dei marinai»

Ci fu un attimo di silenzio rotto da Colombo che, senza perdere il sorriso che aveva stampato in faccia, mi disse: «Posso farvi dono delle mie carte nautiche: non della mia volontà. Se volete tornare a casa eccole: è tutto quel che posso fare per voi».

Tornammo con le pive nel sacco dai nostri compagni. Colombo ci aveva gabbati e noi eravamo convinti che di lì a poco il mare ci avrebbe risucchiati. Quella notte stessa, però, la vedetta vide in lontananza una luce che come una piccola candela si levava e si agitava e all’alba vedemmo galleggiare sul pelo dell’acqua delle foglie di cui non sapevamo individuare la provenienza. Nel giro di un paio di giorni toccammo terra: la terra più bella che io mi ricordi di aver mai visto scorgere dalla linea dell’orizzonte.

Qualche tempo dopo, facendomi coraggio, chiesi a Colombo cosa lo aveva spinto a rischiare la vita per arrivare fin laggiù.

«Affacciandomi dalla finestra del mio studiolo avevo visto uno stormo di uccelli volare verso Sud-Est. La terra non poteva essere lontana», rispose.

«E le bussole? Non avevate timore dei demoni di cui narravano gli anziani?», chiesi.

«Io ho fede nel buon Dio: non ho mai creduto a demoni che si impossessano delle bussole. Perché poi sia accaduto quel fatto non te lo so dire. Ma che importa?»

Nemmeno lui conosceva il fenomeno della declinazione magnetica, che a me fu spiegato solo molti anni dopo.

 

Tommaso Di Brango

La cultura prodotta dalla provincia italiana si nutre da sempre di sentimenti contrastanti. Da un lato, infatti, gli intellettuali nati e vissuti nei piccoli centri non hanno quasi mai mancato di evidenziare la stretta correlazione tra condizione provinciale, ristrettezza d’orizzonte e refrattarietà all’innovazione culturale, esprimendo non incomprensibili moti di rifiuto. Dall’altro lato, però, è altrettanto agevole rilevare che in quegli stessi intellettuali la “provincialità” porta con sé anche un forte senso di appartenenza in virtù del quale la terra natia viene percepita non come un vicolo cieco da cui fuggire ma, piuttosto, come una sorgente essiccata da rivitalizzare.

A questa “legge” non sfuggono nemmeno le pagine di Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi (Cosenza, Edizioni Orizzonti Meridionali, 2015) di Carlo Cipparrone. È vero, infatti, che questo breve ma denso volumetto si alimenta perlopiù di documenti relativi al rapporto tra il suo autore e Carlo Betocchi e, più in generale, tra quest’ultimo e i poeti calabresi del Novecento; ma è altrettanto vero che quel che da tali scritti emerge è soprattutto l’immagine di una Calabria pigra e culturalmente arretrata ma anche carica di energie e potenzialità che non riescono a trovare vie per esprimersi.

Penso, in proposito, soprattutto all’ultima sezione del libro, ovvero a quella con cui Cipparrone fornisce brevi, esaustivi e appassionati – ma mai oleografici – ritratti di poeti come Lorenzo Calogero, Nerio Nunziata, Ermelinda Oliva, Gilda Trisolini e Silvio Vetere. È rievocando queste figure, infatti, che emerge il profilo di una Calabria “europea”, che se da un lato riesce a liberarsi dall’angusta ipoteca del classicismo erudito – tara storica della cultura di provincia – dall’altro resta priva di significativi contatti col circuito dell’editoria nazionale, configurandosi dunque come intensa e sofferta espressione di un sentimento di estraneità che ha radici storico-culturali oltre che filosofiche ed esistenziali.

Il destino di questi poeti sembra del resto essere stato involontariamente profetizzato da Carlo Betocchi nel 1957 in un dialogo a mezzo stampa con Cipparrone e Nunziata riportato nella seconda sezione del libro. Mentre questi ultimi denunciavano l’arretratezza della cultura locale rilevando la fredda accoglienza riservata in città a una conferenza tenuta da Betocchi, infatti, il poeta de L’estate di San Martino gli faceva notare, con sensibilità quasi gramsciana, che proporre una cultura d’avanguardia in un contesto ricco di energie ma arretrato sul piano socio-economico significa inevitabilmente condannarsi alla sconfitta e all’emarginazione e che occorre, piuttosto, lavorare su un’innovazione in grado di innestarsi sulla cultura esistente.

Il libro di Cipparrone mostra, inoltre, che l’atteggiamento di Betocchi nei confronti dei poeti calabresi è sempre stato caratterizzato da una significativa – anche se non sempre affidabilissima – generosità. Da un lato c’è l’epistolario – riportato nella quarta sezione del libro – tra l’autore e il poeta di Realtà vince il sogno, da cui emergono soprattutto le differenze tra un giovane poeta calabrese desideroso di far valere i propri talenti e un affermato autore impegnato nell’editoria e nella RAI; dall’altro lato, però, c’è il breve saggio sui rapporti tra Betocchi e i calabresi Calogero, Oliva e Trisolini, da cui emerge il sincero impegno di talent scout profuso dal poeta fiorentino.

A sintetizzare questa serie di diadi oppositive – arretratezza provinciale e cultura d’avanguardia, attivismo culturale ed estraneità al circuito della grande editoria, prossimità e distanza da Carlo Betocchi – ci sono poi i versi de Il vetturale di Cosenza e Betocchi (e la comune strada) presenti nella seconda sezione del libro. Il primo componimento venne realizzato da Betocchi durante il suo soggiorno a Cosenza, nel 1957, ed è una sorta di omaggio ai vizi e alle virtù di un Mezzogiorno in cui una dignitosa miseria convive spesso con una non altrettanto lodevole arte di arrangiarsi; il secondo è, invece, un componimento pubblicato, oltre che nel presente libro, anche sulla rivista «Capoverso» e nel volume Il poeta è un clandestino e pensato da Cipparrone come risposta ideale ai versi del poeta fiorentino. Una risposta che lascia trasparire un senso di profonda venerazione per Carlo Betocchi, che Cipparrone ha considerato e considera uno dei pochi grandi poeti del Novecento, ma anche la convinzione di avere in comune con lui quella «ostinazione del solitario andare» che, al netto di qualsiasi differenza socio-ambientale, qualifica il senso profondo del fare poesia.

Tommaso Di Brango

Il 31 maggio del 2011 un anziano ma energico Vincenzo Grimaldi incontrò gli studenti dell’Università di Cassino per parlare con loro di Ernesto Nicandro Conte. Di quel prezioso avvenimento resta testimonianza nel volumetto Pagine di storia partigiana – Il Comandante Bellini incontra gli studenti dell’Università di Cassino (Cassino, Istituto per le Ricerche Sociali “Antonio Labriola”, 2016), la cui realizzazione è stata curata da Francesco De Napoli.

Si tratta di una pubblicazione estremamente importante. In primo luogo, infatti, essa mette nero su bianco l’appassionato ma mai retorico discorso del “Comandante Bellini” – questo il nome di battaglia di Grimaldi durante la lotta partigiana –, evitandogli così un penoso e imperdonabile oblio; in secondo luogo offre un prezioso contributo al dibattito sulla Resistenza in una città come Cassino, i cui umori clerico-fascisti non si sono mai spenti del tutto segnalando anzi, negli ultimi tempi, alcuni preoccupanti “ritorni di fiamma”; ed infine contribuisce a far luce sulla vicenda di Ernesto Nicandro e Giovanni Conte, fratelli cassinati divisi dalle opposte appartenenze ideologiche – partigiano il primo, fascista il secondo – e, per questo motivo, emblemi di un Novecento che per molti versi è stato effettivamente un’epoca di “guerre di religione” (E. J. Hobsbawm).

Al testo della conferenza di Grimaldi, inoltre, Francesco De Napoli aggiunge un accurato Dossier in cui vengono presentati vari documenti relativi a “Tacito” – come Ernesto Nicandro Conte veniva chiamato dai compagni di lotta – e un’appassionata Introduzione in cui, oltre a rievocare la figura di Bellini, ribadisce le ragioni dello studio e della divulgazione dei fatti avvenuti durante la Resistenza italiana.

Purtroppo non c’è da sperare che queste Pagine di storia partigiana possano effettivamente scuotere il panorama culturale cassinate. In una città che si è dimenticata di commemorare Antonio Labriola in occasione dei centodieci anni dalla morte è infatti assai difficile che ci si ricordi di un illustrissimo ma, ahinoi, semisconosciuto concittadino morto combattendo contro l’invasore nazifascista. È però lecito augurarsi che incontri come quello tenuto da Grimaldi e documentato da De Napoli possano avere il valore di un seme gettato e destinato, un domani, a dare esiti imprevisti.

La storia, disse Stephen, è un incubo da cui sto cercando di risvegliarmi. 

J. Joyce, Ulisse

Imparai ad andare in bicicletta nell’estate in cui compii il passaggio dai quindici ai sedici anni. Prima di allora l’idea di dovermi reggere in equilibrio su quello che, ai miei occhi, appariva come un non meglio precisato attrezzo metallico posto su due ruote mi spaventava. Ma pian piano, grazie anche all’impegno di mio padre, la paura passò e io interpretai la cosa come un grande successo. A quell’età basta poco per farti sentire pronto a sfidare il mondo.

Così, un pomeriggio di fine estate, presi la bicicletta, uscii dal cancelletto di casa e, dopo averlo chiuso alle mie spalle, mi avviai in direzione dell’ex campo d’aviazione. Non ricordo se il caldo afoso dei mesi precedenti se n’era già andato, ma di certo posso dire che in quei frangenti il peso della temperatura esterna tendeva a relativizzarsi di parecchio. Quando si è in bicicletta, sulla lingua d’asfalto che circonda il campo di Aquino, l’aria che passa attraverso i vestiti fa apparire fresche anche le giornate che precedono Ferragosto.

Vidi le case del mio quartiere – una piccola porzione di paese nota col nome di “Starzella” – sfrecciarmi accanto e, nel volgere di circa un minuto, giunsi alla piccola salita che sbocca sul campo d’aviazione. Mi fermai, come di consueto, per vedere se c’erano automobili di passaggio e, constatato che ero solo, svoltai a destra. Potevano essere le tre del pomeriggio: ora di pennichelle, soprattutto in estate.

Pedalavo senza mai mollare il manubrio: la confidenza che avevo sviluppato con la bicicletta non era tale da consentirmi di liberare le mani. In compenso, però, guardavo la strada e, oltre quella, il paesaggio. Alla mia destra c’era l’acquedotto che ancora oggi costeggia l’ex aeroporto di Aquino, mentre a sinistra avevo il guard-rail che separa automobili e ciclisti dal piccolo fossato che precede i campi da arare. Di fronte, invece, avevo l’asfalto, lo sfrecciare degli alberi al bordo della strada e, in lontananza, l’immagine dell’abbazia di Montecassino.

Ricordo ancora bene l’intensa sensazione di freschezza rilasciata sulle mani dall’acqua portata da quelle condutture nei momenti in cui, pure, decidevo di fare delle piccole soste durante i miei giri di campo. E altrettanto nettamente ho nella memoria il piccolo sforzo in più richiesto alle mie gambe di allora dalla salitella che precede il bivio che porta alla contrada Volla e da lì a Piedimonte San Germano, come pure il sollievo provocato dalla conseguente discesa.

Il tutto richiese circa tre quarti d’ora. Oltrepassata la zona in cui in passato dovette trovarsi la pista d’atterraggio di quell’aeroporto in disuso mi ci vollero due minuti circa per arrivare all’altezza delle mura grigie del cimitero del paese. Lì potevo scegliere se andare oltre i cipressi e ritornare a casa passando dall’interno del centro abitato oppure se sfilare davanti all’ingresso del camposanto e imboccare la stradina che lo costeggia sulla sinistra.

Mi decisi per la seconda opzione, come pressoché sempre ho fatto tutte le volte che mi sono trovato a quell’altezza, ed ebbi accanto il campo di granturco che ogni estate colora di un verde intenso quella strada. Il sudore mi incollava la maglietta alla schiena e mi faceva pendere in basso i capelli mentre, non senza avvertire un po’ di stanchezza, mi avviavo in direzione di casa.

Una volta giunto a destinazione citofonai e, dopo poco, vidi mio padre aprire la porta. Sul posto non me ne resi conto, ma adesso, nel ricordo, lo rivedo con un volto scuro, accigliato, roso da una preoccupazione che faceva di tutto per non mostrare. «Come va?», gli feci, e quella che a tutta prima può apparire come la più sciocca delle domande – cosa poteva essere cambiato nel giro di tre quarti d’ora scarsi? – ottenne una risposta piuttosto inquietante.

«Brutte notizie», rispose con voce secca. «Bruttissime, anzi. Due aerei palestinesi si sono scagliati contro le Torri Gemelle di New York». «Come?», feci io. «Lo ha detto poco fa il telegiornale. Stanno facendo un’edizione straordinaria». Col passare delle ore capimmo che ad abbattere le Twin Towers non erano stati – come qualcuno, nella confusione generale, aveva detto – i palestinesi. Ho avuto però bisogno di molti anni per capire quale doveva essere lo stato d’animo di mio padre in quel momento.

Leggendo Pensare altrimenti mi accorgo che Diego Fusaro è un maestro nell’arte di avvelenare i pozzi. Difficilmente, infatti, lo si vedrà smentire in punta di fatto o con argomentazioni logiche le tesi di quello che lui chiama “pensiero unico politicamente corretto” da cui occorrerebbe dissentire. Accadrà, piuttosto, di vederlo attribuire quelle tesi alle logiche del neocapitalismo – o “capitalismo assoluto-totalitario”, come lo chiama lui – allo scopo di minarne la credibilità prima ancora di aver effettuato qualsivoglia verifica.
In questo modo lui potrà dire qualsiasi cosa. Potrà qualificare Gheddafi e Milosevic come leader politici resistenti al neocapitalismo americanoide e, non appena qualcuno gli farà notare che si trattava di criminali, lui potrà dire che questo giudizio su di loro è stato diffuso dal clero giornalistico e dal circo mediatico. Oppure potrà dire che lo Stato-nazione è il solo avamposto possibile per la tutela dei diritti sociali e, se qualcuno gli facesse notare che l’epopea dello Stato nazionale è stata un susseguirsi di guerre e barbarie, lui risponderebbe che queste forme di delegittimazione sono coerenti con la volontà del nuovo potere dell’economia globale e spoliticizzata.
Questo è l’avvelenamento dei pozzi: delegittimare ab origine ogni possibile discorso dell’avversario minandone la credibilità. In questo Fusaro è davvero eccezionale.
Ciò posto, non bisogna credere che Pensare altrimenti sia un libercolo. Tutt’altro. Chi lo ha stroncato facendolo passare per un pamphlet contro i Gender Studies e i diritti degli omosessuali dimostra di non averlo letto o di averlo letto superficialmente. In esso ci sono, anzi, interessanti spunti di riflessione sulla natura del dissenso, sul suo rapporto con la democrazia e sul mondo post-1989: tutti argomenti su cui si potrebbero intavolare discussioni proficue e molto serie, specie considerando il bagaglio culturale – oggettivamente vastissimo – di Fusaro. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, che senso ha discutere del dissenso nei riguardi del neocapitalismo trionfante nel momento in cui il capitalismo sembra aver imboccato una delle più drammatiche crisi della sua storia. Sarebbe interessante, perché mi si potrebbe replicare che da sempre il capitalismo si alimenta di crisi, che da queste crisi nascono sperimentazioni politiche pericolose ecc. Peccato, però, che il grosso del discorso contenuto in Pensare altrimenti si concentri su un dissenso un tantinello adolescenziale, pensato più per gli utenti dei social network che adorano Fusaro che per una seria discussione critica del presente.

“I musicanti non piangono mai”, scriveva Francesco De Gregori in una sua enigmatica canzone degli anni Settanta. Sono le prime parole a essermi venute in mente mentre leggevo il brano che mi accingo a pubblicare: un racconto nel quale la musica, l’amicizia e un senso di quasi calviniana “leggerezza” dominano la scena. 

Nel parlare dei protagonisti di questo scritto devo, però, cercare di guadagnare una distanza critica che, fatalmente, non potrò mai riuscire a conquistare del tutto. I tre “musicanti” presenti in queste pagine sono infatti Donato Di Brango, Paolo Secondini e Luigi – alias “Gino” – De Cesare: ovvero mio padre e i suoi due amici più stretti, quelli con cui, fin dall’infanzia, condivise le passioni più significative, tra cui quella per la musica. 

Il tempo ha lasciato al solo Paolo Secondini la facoltà di raccontare cosa fu quell’amicizia: e quel che segue ne è una piccola ma significativa documentazione.   

Ad essere messa a fuoco, in queste pagine, è la loro comune passione per la musica. Quel che emerge è un’immagine di spensieratezza giovanile rievocata da una voce narrante che oscilla costantemente tra malinconia e umorismo, quasi desiderosa di restituire il valore di un’esperienza condivisa raccontandola con sobrietà, senza fare uso di accensioni retoriche o toni lacrimevoli.

Ringrazio, a nome mio e della mia famiglia, il professor Paolo Secondini.  

Decidemmo, Gino, Donato e io, di far musica ensemble, così, tanto per passare il tempo e coltivare una passione che in loro, certamente, era più grande della mia. La bravura di Gino e Donato, rispettivamente alla chitarra classica e al pianoforte, era a tutti ben nota in paese, e non solo.

Mi unii a loro con uno strumento, il flauto traverso, che mai avevo suonato in vita mia e che, a malapena, sapevo cos’era, com’era fatto. Mi fu consigliato proprio da Gino e Donato, i quali mi dissero che, se mi fossi applicato costantemente, sarei in breve riuscito a cavarne qualcosa. E infatti, dopo pochissimo tempo di esercitazione, ero in grado di strimpellarlo, dando voce finanche a qualche motivetto.

Ma con Gino e Donato il motivetto doveva essere serio, classico, per l’esattezza.

Si cominciò con un brano, non complicato (per me, s’intende), di musica antica: precisamente del liutista John Dowland, proposto da Gino, che al brano aveva magistralmente aggiunto, mancandovi, la parte del pianoforte per Donato e del flauto per me.

«Facile, mi raccomando!» gli avevo detto. «Altrimenti mi perdo.»

«Non dubitare,» mi aveva rassicurato, con quel suo sorriso bonario che gli conoscevo. «In ogni caso… solmisazione, solmisazione… e non potrai sbagliare.»

Già! Solmisazione… Ma che diavolo era?

Mi guardai bene dal domandarlo.

Donato, per quanto avesse le sue preferenze in fatto di musica (amava segnatamente quella romantica: Beethoven, Chopin, Brahms, al contrario di Gino, che prediligeva quella barocca di Johannes Sebastian Bach), lasciava a Gino, quasi sempre, la facoltà di scegliere i brani, di curarne l’armonizzazione e altro. Gino era senz’altro un valente musicista (lo affermo qui con schietta convinzione): unico, eccezionale; mentre Donato era, soprattutto, un ottimo esecutore (e lo dico con grande ammirazione). Rammento che gli bastava una sola lettura dello spartito per eseguirlo quasi alla perfezione: il che è semplicemente straordinario.

Dei tre, il meno edotto, meno che mai evoluto, musicalmente – il più scarsetto, per dirla in modo franco –, ero io senz’altro. Non lo nascondevo del resto, lo ammettevo, anzi, candidamente, sentendomi, verso i due bravissimi amici, nel più grande imbarazzo (mi paragonavo a una macchia d’inchiostro su un pentagramma ancora immacolato: qualcosa, cioè, di veramente fuori luogo).

Pertanto, guardavo a Gino e Donato come a due “fari musicali”, due validi punti di riferimento, senza i quali sarei stato inghiottito, annaspandovi, dal mare agitato delle note.  Ma mi sentivo tranquillo, avendo in loro due salvagenti sicuri e… pazienti, molto pazienti, specie quando (il che accadeva frequentemente) dal mio flauto usciva un’acuta e madornale stonatura.

Seguiva, subito, una risata sdrammatizzante, e si cominciava di nuovo, con passione e tanta pazienza (verso di me, ovviamente).

Ma quante stonature ancora, e quante risate, per mia fortuna!…

Non suono più da moltissimo tempo.

Un giorno, per due eventi assai dolorosi, l’uno poco distante dall’altro, appesi, come suol dirsi, il flauto al chiodo (e ancora è lì, ad arrugginirsi miseramente).

Nessun rimpianto di esso, nessuna nostalgia!

Mi conforta solo sapere che Gino e Donato suonano ancora – insieme e in luoghi più eccelsi e solari di quelli terreni – musiche alte, sublimi… dalle armonie celestiali.