La Festa della Liberazione è da tempo – e forse da sempre – fonte di polemiche. Il fatto in sé è di quelli che mettono di malumore, perché mostra con evidenza il persistere di una subcultura fascistoide assai dura a morire nel nostro costume nazionale. Ma quanti discutono sull’effettivo valore del 25 aprile tendono quasi sempre a rifiutare la definizione di “neofascisti” e motivano le loro perplessità impiegando argomenti che, almeno sulla carta (o in apparenza), non comportano una celebrazione del defunto regime mussoliniano o di quella sua ridicola parodia che fu la R.S.I.
Personalità come Diego Fusaro, per esempio, sostengono che la lotta resistenziale ha avuto il merito di concorrere alla liberazione dal nazifascismo ma anche il demerito di farci finire sotto la tutela americana, che ha inevitabilmente limitato la nostra sovranità nazionale. Una critica in effetti non nuova – tutto il dibattito alimentato dalla firma dei Protocolli di Roma (1944) ruota intorno a questi temi – che, però, non considera che la Resistenza non liberò l’Italia dal Male ma, più modestamente e concretamente, da fascisti e nazisti. Il fatto che all’indomani del conflitto il mondo abbia assunto una conformazione a blocchi e che l’Italia si sia collocata a occidente non azzera i motivi di giubilo per il contributo dato dagli italiani alla fine di regimi come quelli di Mussolini e Hitler. Anche perché, a conti fatti, nella zoppicante democrazia postbellica le cose sono andate molto meglio che nei regimi totalitari degli anni Venti e Trenta.
Altri, come Gianluca Veneziani, affermano che la lotta resistenziale fu un fatto limitato a un numero relativamente ristretto di persone – i partigiani – e che, dunque, non si trattò di una rivolta popolare. Anche in questo caso la critica non è nuova – Ernesto Galli della Loggia, parlando di “morte della patria”, ha detto cose molto simili, e del resto la storiografia di sinistra ha a lungo alimentato il mito della “Resistenza tradita” impiegando questi argomenti – e anche qui c’è da rilevare che è sbagliato il focus. Se la lotta di liberazione fosse stata un fatto esclusivamente militare, infatti, avrebbe ragione Veneziani: i partigiani furono una porzione assai ridotta di popolazione (per di più collocata prevalentemente a Nord). Il punto, però, è che la Resistenza non fu solo una questione militare, e basterebbe leggere la più qualificata storiografia italiana degli ultimi vent’anni (Scoppola, Peli, Riccardi ecc.) per rendersene conto.
I dirigenti del Cln, per esempio, non furono figure armate, eppure senza di loro non si capisce nulla della lotta di liberazione. Oppure, se volessimo allargare il campo, dovremmo considerare il ruolo avuto dalle donne nella Resistenza, il quale è stato ingiustamente misconosciuto dalla stessa storiografia post-resistenziale. E ancora: è del tutto evidente che, non essendo un vero e proprio esercito, senza il sostegno delle popolazioni residenti nei territori in cui operarono i partigiani non avrebbero potuto ingaggiare alcuna lotta armata, e quindi il rapporto tra combattenti e civili è un fatto coessenziale alla Resistenza. Ma poi: perché non dovrebbero essere parte del movimento resistenziale anche gli internati militari italiani nei lager che rifiutarono di tornare in patria a servire la R.S.I.? E che dire di frati e suore che, per iniziativa di Pio XII, aprirono le porte dei conventi agli ebrei e ai perseguitati politici? Certo, in quest’ottica la Resistenza perde i suoi connotati “di sinistra”. Ma li perde proprio perché acquista quel profilo più compiutamente “popolare” che Veneziani intende negarle.
Ovviamente un discorso del genere presta il fianco a parecchie critiche e, sotto molti punti di vista, è in via di definizione anche per gli storici. Certo, però, se si discutesse di questi temi senza arrampicarsi sugli specchi della sovranità popolare o dei numeri del movimento partigiano si sarebbe fatto un grandissimo passo in avanti.